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Le proteste scoppiate alla fine di settembre nel Pakistan-administered Kashmir – che l’India definisce “Pakistan-occupied Kashmir (PoK)” – hanno portato alla luce tensioni economiche e istituzionali di lungo periodo, oltre a episodi di grave violenza che hanno sollevato preoccupazioni internazionali.

Le manifestazioni, guidate dal Jammu Kashmir Joint Awami Action Committee, erano iniziate con uno sciopero generale il 29 settembre, dopo il fallimento dei negoziati con le autorità locali. Il movimento aveva presentato un programma articolato in 38 punti, chiedendo riforme politiche e sociali, la riduzione delle tariffe elettriche, sussidi per i beni di prima necessità e l’ampliamento dei servizi sanitari ed educativi.

Le proteste si sono rapidamente estese in diverse aree del territorio delle regioni Azad Kashmir (amministrata da un governo locale sotto controllo pakistano) al Gilgit-Baltistan (amministrata direttamente da Islamabad), culminando in violenti scontri tra manifestanti e forze di sicurezza. Secondo fonti locali e agenzie internazionali, dieci persone sono state uccise e decine di altre, tra civili e agenti, sono rimaste ferite. Le autorità pakistane sono state accusate di aver fatto ricorso a munizioni vere contro dimostranti disarmati. Le vittime potrebbero essere anche di più.

Le immagini delle repressioni hanno suscitato reazioni internazionali e spinto il ministero degli Esteri indiano a parlare di “atrocità orribili” e di “conseguenza naturale di un approccio oppressivo e predatorio”.

Di fronte all’escalation, il primo ministro Shehbaz Sharif ha inviato a Muzaffarabad una delegazione di alto livello, guidata dall’ex premier Raja Pervaiz Ashraf, per negoziare una soluzione. Dopo due giorni di colloqui, le parti hanno raggiunto un accordo in 25 punti, che prevede tra l’altro: indennizzi per le vittime, fondi per il miglioramento del sistema elettrico e sanitario, nuove strutture educative, e una riorganizzazione dell’amministrazione locale con la riduzione del numero dei ministri e dei segretari.

Il governo federale si è inoltre impegnato a destinare 10 miliardi di rupie pakistane (poco più di 30 milioni di euro) al potenziamento delle infrastrutture energetiche dell’area e a valutare nuovi progetti viari e aeroportuali.

Sebbene le autorità di Islamabad abbiano definito l’intesa una “vittoria per la pace”, l’episodio ha evidenziato la profondità del malcontento sociale nelle regioni amministrate dal Pakistan. La durezza della risposta iniziale e la successiva necessità di concessioni economiche e amministrative mostrano le difficoltà del governo nel mantenere stabilità e consenso in un contesto caratterizzato da crisi economica, disoccupazione elevata e richieste di maggiore autonomia locale. Contesto interno che mal si abbona con la volontà di Islamabad di essere un attore internazionale piantato nelle dinamiche tra Medio Oriente, Asia Centrale e Oceano Indiano.

In Pakistan il pugno duro ferma le proteste ma mostra la debolezza di Islamabad

Le proteste nel Pakistan-occupied Kashmir, nate da rivendicazioni economiche e sociali, sono degenerate in scontri che hanno causato dieci morti e decine di feriti. La successiva mediazione del governo Sharif ha portato a un accordo, ma ha anche messo in luce le fragilità interne del sistema pakistano

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