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Ho letto con molto interesse le considerazioni di Marco Ferrante su Fiat e sulle strategie di Fiat. Condivido molto di quanto dice Ferrante, osservatore attento alle questioni legate a Fiat e all’industria italiana in generale.
Ritengo però opportuno fare alcune considerazioni aggiuntive. L’operato di Fiat è la cartina di tornasole della salute imprenditoriale italiana, della vocazione del nostro paese a inventare e costruire.
 
L’approccio di Ferrante è corretto se si guarda alla Fiat come a un’impresa privata in senso stretto. I privati e la libera iniziativa sono il sale del capitalismo e, in quanto liberi, si muovono, intraprendono e creano profitto laddove questo è massimo. E in queste dinamiche che il capitalismo, dacché la rivoluzione industriale è in divenire, ha prodotto le condizioni di maggior benessere diffuso.
In Italia, malgrado l’assenza di materie prime, quella capacità di inventare, di combinare l’elettronica con l’elettromeccanica, vestendo il tutto con quel tocco di estetica e design che tutto il mondo ci invidia, si è però smarrita da più di vent’anni. E questo è nei fatti, tanto e vero che, se si guarda indietro alla ricerca di cosiddetti lovemarks, non se ne trovano dagli anni 80 in avanti.
 
L’automotive, l’aerospazio, quell’industria “pesante” che muove il 90% delle materie prime, dall’acciaio alla plastica, passando per le gomme e l’elettronica, sono quei settori che permettono di trascinare nell’ingranaggio schumpeteriano del rompere e costruire tutta l’industria. Ed è per questo che sono strategici e sono stati, in Italia, nazionalizzati. Perché significano sviluppo economico, vantaggi competitivi e benessere della bilancia dei pagamenti. A maggior ragione quando, in tempi di recessione, non ci si può accomodare sul divano di bitume e d’acciaio che sono scomodi e puzzolenti sofà anticiclici.
 
Si può stare dalla parte di Marchionne quando opera per rompere quel cortocircuito tra stato e sindacati perché in quel groviglio di interessi tra pubblico e privato l’Italia è rimasta al palo. Creando un freno alla sua capacità di investimento e alla sua agilità nel reinventarsi così come fece durante gli anni del boom. Ma non si può essere con Marchionne quando all’interno delle sue strategie non si ravvisa nessun indicazione che guardi al futuro, dal punto di vista tecnologico o di marketing, che faccia da grimaldello alla costruzione di vantaggi competitivi sostenibili. Pensiamo alle auto elettriche e alla valorizzazione dei marchi Abarth, Innocenti. Non pensare a un restyling della A112 ci pare francamente un errore.
 
Quello che occorre definire a livello di Sistema Italia è quanto Stato potrà e ci vorrà essere nella composizione della strategia industriale del nostro paese. Gli estremi del dominio di scelta sono chiari: da una parte lo Stato fa un passo, o anche due, indietro e lascia alla libera iniziativa campo libero sperando che la transizione demandata alle sole forze economiche non lasci sul terreno troppe vittime. Dall’altra uno Stato forte, più simile al modello Francese o Tedesco che concerta con le grandi imprese un indirizzo attorno al quale coagulare le forze vitali del paese.
 
Il primo scenario profuma di contendibilità, di opportunità, di spazi aperti dove, con maggiore equità, anche forze giovani con motivazione e competenze, e ce ne sono tante, possono dire la propria. Prelude a scenari in cui nuovi player possono far ingresso in Italia portando, penso ad esempio alla possibilità che Volkswagen venga a produrre in Italia, organizzazione del lavoro migliore della nostra. Nuove contaminazioni che non possono essere che positive. Fa sperare a un futuro con un ruolo ridimensionato dei sindacati una sovrastruttura ideologica svuotata della sua essenza dalla storia.
 
Il problema del lavoro è oggi una partita che l’imprenditore gioca sullo stesso tavolo con i lavoratori. Suggestiva ma promettente è l’idea di un’ azionariato diffuso tra proprietà e lavoro. Una via dal basso per diffondere quella cultura del rischio che in Italia è polverizzata nelle tantissime microiniziative artigianali.
Il secondo scenario richiede una buona politica. E quella al momento è il ritardo più grande del nostro paese.
 
Michele Fronterrè, laureato in Ingegneria Aerospaziale al Politecnico di Torino 10 anni fa. Nel 2007, ha co-fondato presso I3P, l´acceleratore d´imprese del Politecnico di Torino, Ingenia, una start-up che opera nel mercato dell´uso razionale dell´energia. Dalla fine dello stesso anno si occupa anche dello sviluppo commerciale di Cantene, società sempre all´interno di I3P che si occupa di servizi di ingegneria quali l´analisi, mediante l´utilizzo di simulazioni numeriche, di fenomeni d´incendi in spazi confinati. Ha scritto “Imprenditori d´Italia, storie di successo dall´Unità a oggi” (Edizioni della Sera, 2010)

Vi spiego le pecche industriali di Marchionne

Ho letto con molto interesse le considerazioni di Marco Ferrante su Fiat e sulle strategie di Fiat. Condivido molto di quanto dice Ferrante, osservatore attento alle questioni legate a Fiat e all’industria italiana in generale. Ritengo però opportuno fare alcune considerazioni aggiuntive. L’operato di Fiat è la cartina di tornasole della salute imprenditoriale italiana, della vocazione del nostro paese a inventare…

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