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È bastato il terzo e ultimo dibattito elettorale tra Mitt Romney e Barack Obama, quello dedicato alla politica estera lo scorso 22 ottobre, per capire che il mondo non è stato protagonista della campagna elettorale americana e perché non sarà tra le priorità del prossimo presidente degli Stati Uniti. Chiunque esso sia.
 
Gli americani hanno abbastanza problemi dentro casa per continuare a promuovere l’esportazione della democrazia. Si sentono soddisfatti dall’eliminazione di Osama bin Laden e dal ritiro dei soldati in Iraq e Afghanistan. Ora è arrivato il momento di pensare a sé, agli indici di disoccupazione e alla recessione economica. Non alla pace in terre lontane.
 
Sulla mancanza di protagonismo della politica estera nella campagna elettorale, e sulla prossima gestione presidenziale, il giornalista del Post, Francesco Costa, ha scritto un’analisi pubblicata sul dossier dell’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi) dedicato all’America. Costa, collaboratore tra l’altro del mensile “Il” del Sole 24 Ore, sostiene che lo stesso presidente Obama, anche avendo gli elementi per vantarsi, ha deciso di sfruttare poco le ottime performance in politica estera e “ha insistito sulla necessità di fare ‘nation building’ a casa propria, per essere forti e credibili sul piano internazionale, e su questioni direttamente collegate all’economia statunitense, come i rapporti commerciali con la Cina o le scelte di politica energetica”.
 
Anche il trattamento degli attentati dell’11 settembre a Bengasi, dove è morto l’ambasciatore americano, e l’assenza di una discussione sulla sicurezza nei Paesi sconvolti dalla Primavera araba, evidenziano che quello che accade fuori dalle frontiere americane è ridimensionato rispetto a qualche anno fa.
 
Secondo Costa, un’altra ragione della marginalità degli affari internazionali è stata la capacità di Obama di espandersi e occupare uno spazio politico non solo nella sinistra statunitense, sommata alla vulnerabilità di Romney nel non sapere differenziarsi da Obama e non avere un’agenda alternativa.
 
“Si pensi per esempio a due capitoli fondamentali, l’Iran e la Siria, su cui Romney ha avuto scarsissimo margine di manovra: sull’Iran, l’amministrazione Obama può vantare gli effetti devastanti che le durissime sanzioni stanno avendo sull´economia del Paese; sulla Siria entrambi hanno escluso categoricamente un intervento militare sul campo e ribadito la necessità di sostenere i ribelli”, secondo il giornalista del Post che ha scritto anche per Internazionale, Il Foglio, l´Unità e Liberal. Sono temi su cui era difficile produrre un dibattito ricco e produttivo e si è rimasti incastrati su chi sarebbe riuscito ad avere la mano più dura con Russia e Cina. Forse perché sarà quella la nuova linea della politica estera americana.

Perché nel voto la politica estera Usa è rimasta nell’ombra

È bastato il terzo e ultimo dibattito elettorale tra Mitt Romney e Barack Obama, quello dedicato alla politica estera lo scorso 22 ottobre, per capire che il mondo non è stato protagonista della campagna elettorale americana e perché non sarà tra le priorità del prossimo presidente degli Stati Uniti. Chiunque esso sia.   Gli americani hanno abbastanza problemi dentro casa…

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