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L’economia italiana è ad un crocevia spesso frainteso. Le politiche economiche sinora condotte hanno mirato ad un consolidamento del bilancio pubblico anche grazie all’utilizzo dei fondi del PNRR, che tuttavia sono per quasi due terzi costituiti da prestiti che sarà necessario restituire e su cui sarà altrettanto necessario pagare gli interessi.

Nel frattempo, l’economia nazionale, in linea con una trasformazione generale dei sistemi economici globali, sta sempre più concentrandosi sui servizi, condizione che ha numerose implicazioni sia in termini demografici, che in termini di trasferimenti intergenerazionali.

Nel frattempo, la strategia di influenza internazionale punta con sempre maggiore evidenza a settori come cultura e turismo, ma proprio in quei settori, stando al report dell’Inps ben commentato da Sky, si registrano i pagamenti più bassi verso i propri dipendenti.

A fronte di uno stipendio medio pari a 24.486 euro, i dipendenti delle imprese che lavorano nel comparto delle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento (in tutto 269.942 lavoratori), hanno registrato uno stipendio medio annuo di 15.628 euro.

Peggio di loro soltanto i dipendenti delle attività dei servizi di alloggio e di ristorazione: 2.020.119 lavoratori, 11.233 euro di retribuzione media annua.

È necessario chiarire che si sta tenendo in considerazione esclusivamente coloro che hanno un contratto di lavoro dipendente, ben sapendo che, soprattutto in ambito culturale, la quota di persone che utilizza la partita IVA è molto alta, e di frequente tale utilizzo è dettato dalle condizioni di mercato.

Così come è necessario sottolineare che tali dati registrano anche un incremento complessivo rispetto agli anni precedenti che risulta essere più alto della media degli altri comparti.

Cerchiamo dunque di mettere un po’ di ordine.

L’Italia ha una crisi demografica conclamata. L’economia si sta sempre più riconvertendo ad una componente di servizio che fatta eccezione per alcuni settori richiede dei lavoratori con formazione spesso universitaria, con la presenza poi di alcuni comparti in cui la laurea è il livello più basso della gerarchia.

Questo comporta un aumento degli anni di studio, e quindi una riduzione degli anni di versamento di contributi (sotto il profilo sistemico) e un meccanismo di minori introiti (quello che avresti guadagnato lavorando mentre invece studiavi) e di maggiori spese (quello che hai speso per studiare, inclusa la stanza fuori città, con costi che talvolta sono veramente molto alti).

Tali spese sono spesso sostenute a fronte di una condizione di mercato che non ha ancora realmente maturato una demografia d’impresa e un fatturato annuo congrui con l’offerta di lavoro, con la conseguente perdita di valore aggiunto per dipendente, e il frequente mismatching (spesso al ribasso) tra competenze possedute dal lavoratore e mansioni che gli vengono affidate.

Nel frattempo, si assiste ad un tendenziale calo delle imprese commerciali, che lasciano il posto a ristoranti, locali notturni o a grandi catene di negozi e ad un incremento degli acquisti online, che propone un prezzo sicuramente più competitivo, ma anche una minore ridistribuzione interna del valore generato, con spese economiche che non di rado vanno a favorire player internazionali.

Le start-up, che dovrebbero essere un meccanismo mediante il quale giovani neolaureati producono servizi innovativi e creano nuove imprese innovative, sono fondate da persone che hanno un’età media di 39 anni e, come indica un articolo del Sole24Ore, spesso si incontrano serie difficoltà nell’accedere ai fondi di investimento.

Del resto, il sistema bancario nazionale, dopo la crisi finanziaria, ha sempre più ristretto la propria funzione di “credito”: lato positivo, siamo meno esposti a crisi finanziarie come quella di quasi vent’anni fa; lato negativo: ciò significa che è più difficile accedere al credito per persone che hanno profili patrimoniali e reddituali meno solidi.

Il risultato è un’erosione del risparmio delle famiglie, anche accelerata dai cambiamenti negli stili di vita per la cosiddetta silver generation: mentre prima il nucleo familiare tendeva ad acquisire un ruolo centrale nella giornata dei pensionati; oggi, la migrazione (interna ed esterna) e l’aumento dell’età media, ha portato all’affermazione di stili di vita attivi (importantissimi) che però richiedono una spesa media sicuramente più elevata rispetto a qualche decennio fa.

Nel frattempo, la grande attenzione rivolta alla cultura e alla creatività dovrebbe far ben sperare: sono settori ad alta competenza, che possono introdurre importanti innovazioni non solo nella dimensione dei prodotti e dei servizi venduti direttamente ai consumatori, ma anche all’interno del più generale sistema produttivo (qualche tempo fa si era soliti sottolineare i dati di interdipendenza settoriale).

Del resto, così come ben riportato dal rapporto Io Sono Cultura 2025, nel 1983, l’economista John Kennet Galbraith (uno dei primi ad avere intuito le debolezze sistemiche del liberismo), quando si parlava dell’Italia affermava che la sua crescita dopo la seconda guerra mondiale non era né da imputare all’industria, né alla scienza, ma alla capacità di incorporare nei suoi prodotti una “componente essenziale di cultura”.

L’ennesima intuizione efficace di Galbraith, troppe per pensare ad una semplice coincidenza. E in effetti, dopo di lui, sono stati numerosissimi gli studi che hanno cercato di capire meglio l’innovazione (e il Nobel del 2025 per l’economia lo testimonia), fino ad arrivare ad una comprensione del fenomeno che tradotta in modo maccheronico suona più o meno così: per innovare ci vogliono capitali di rischio e competenze diffuse.

Un tassello importante che ben si applica alla realtà. Esempio storico? Le botteghe d’arte rinascimentali e i mecenati. Uno un po’ meno aulico? I giocatori di calcio in sud-America.

Tante persone che lavorano in un settore tendono ad incrementare il livello qualitativo medio, e quindi l’emersione dei talenti puri), e un sistema produttivo in grado di premiare i migliori. La Silicon Valley è soltanto l’ultimo degli esempi, insomma.

E le Industrie Culturali e Creative, per le quali è stato recentemente sviluppato un registro specifico e per le quali sono stati emanati dei fondi speciali di finanziamento, presenterebbero davvero un anello di congiunzione tra i talenti e i capitali.

Il punto è che però, di capitali, ce ne sono pochi. Il rapporto Symbola, ad esempio, identifica 7 comparti “core cultura”: architettura e design; comunicazione; audiovisivo e musica; software e videogiochi; editoria e stampa; performing arts e arti visive; patrimonio storico e artistico.

Ora, il patrimonio storico e artistico è noto per essere ampiamente sostenuto dal settore pubblico. Con qualche nota eccezione, e qualche tentativo di connessione tra il pubblico e il privato, ma che non ha ancora generato gli impatti che ci si aspettava imprimesse.

Il settore delle performing arts e delle arti visive, pur contando sicuramente una dimensione privata più importante, è sicuramente caratterizzato dalla presenza di pochissime grandi imprese, poche medie e moltissime piccole e microimprese.

Si pensi allo stato di salute dei teatri (e chiunque abbia visto i numeri di teatri privati sa bene con quanta impazienza si attenda ogni volta il verdetto del FUS, pardon il FNSV). Stesso dicasi con il settore dell’audiovisivo, e chiunque abbia in mente le statistiche

sul cinema negli ultimi anni sa bene quanto abbia inciso il Tax Credit (nel bene e nel male), e la crisi del modello dei concerti sold-out di quest’anno non lascia aggiungere molto altro alla musica.

Si passa poi per i software e videogiochi e qui va detto che per quanto il mercato videoludico italiano sia in crescita, siamo ben lontani dall’avere delle case di produzione comparabili per fatturato ai colossi statunitensi, cinesi e giapponesi, proseguire con il design e l’architettura, che rappresentano senza dubbio una grande valenza per l’export nella fascia medio-alta di prodotti e finire con l’editoria, in cui grandissimi colossi fungono da “pianeti” e che attraggono costellazioni di piccolissime imprese.

Ciò significa che in Italia si fa cultura, e si formano eccellenti professionisti, che spesso per necessità vengono inglobati nella carriera pubblica o nell’accademia, che sono mondi dalle meccaniche peculiari.

Ed esistono anche persone che nella cultura ci credono, al punto da investire le proprie risorse (autoimprenditorialità, persone con Partita IVA, ecc.).

Si tratta di condizioni senza dubbio formidabili, perché ritornando alla piccola formuletta espressa prima, se c’è “conoscenza” basta soltanto il capitale a generare innovazione, ma è evidentemente quest’ultimo a mancare.

E se manca il capitale, e parte della domanda è in qualche modo cooptata da servizi pubblici, e parte degli export sono limitati per bias linguistici, o per mancanza di capacità di distribuire in modo efficace i nostri prodotti culturali e creativi, allora è chiaro che i lavoratori siano ultraformati e sottopagati. È come se nessun asso del calcio sudamericano fosse stato mai ingaggiato da una squadra.

Certo, c’è l’impegno da parte dell’esecutivo, ma non bastano i finanziamenti, perché finanziare una società piccola, che spesso non si può permettere nemmeno un manager (che coincide con il socio e qualche volta con i lavoratori), non basta.

Ci vuole una reale spinta industriale su questi comparti, ma basta sbirciare l’indice del documento “Made in Italy 2030 – Libro verde sulla politica industriale” elaborato dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy ultimato ad ottobre 2024 lo spazio per capire quanto siamo ben distanti dalla comprensione concreta del fenomeno.

Per cercare davvero il ruolo che si attribuisce alla cultura e alla creatività è necessario sbirciare nell’allegato 2, che dopo aver identificato i settori “core” industriali, dedica questo paragrafo al tema: Il Made in Italy come soft power: i comparti del turismo e delle industrie creative.

C’è dunque un nesso che manca, e che trasforma ogni azione in un palliativo. Se dobbiamo far emergere la cultura e la creatività, non possiamo concepirla come una sorta di “pubblicità indiretta per i nostri prodotti veri”.

La cultura e la creatività “devono essere i prodotti veri”. Se non c’è questa possibilità, allora bisogna ridurre la demografia d’impresa e il numero di occupati, per fare in modo che un dottorato non sia (nei fatti) rubare braccia ad altri settori.

O ancora, possiamo anche non cambiare nulla di tutto ciò, ma dobbiamo essere consapevoli che i talenti che coltiviamo li dobbiamo “vendere all’estero”, e “venderli bene”, perché così possono sognare “l’America”, come avveniva cent’anni fa. Perché attualmente più che esportare prodotti, esportiamo produttori. E in termini economici, sociali e demografici, è una gran bella differenza.

Cultura e turismo? Essenziale generino sviluppo. La proposta di Monti

Se dobbiamo far emergere la cultura e la creatività, non possiamo concepirla come una sorta di “pubblicità indiretta per i nostri prodotti veri”. La cultura e la creatività “devono essere i prodotti veri”. Se non c’è questa possibilità, allora bisogna ridurre la demografia d’impresa e il numero di occupati, per fare in modo che un dottorato non sia (nei fatti) rubare braccia ad altri settori. La proposta di Monti

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