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A Johannesburg, il vertice del G20 si apre con un’immagine destinata a segnare la memoria diplomatica dell’attuale stagione storica: una sedia vuota al centro della cerimonia di passaggio della presidenza di turno. Cyril Ramaphosa, padrone di casa per quest’anno che vede il vertice per la prima volta ospitato da un Paese africano, ha annunciato che consegnerà simbolicamente il testimone proprio a quel posto non occupato, riservato agli Stati Uniti, prossimi a guidare il gruppo nel 2026 È il modo scelto dal presidente sudafricano per rendere visibile una assenza che pesa più di molte presenze.

L’autoesclusione americana affonda direttamente nelle accuse che Donald Trump ha rilanciato nelle settimane precedenti al summit. Il presidente statunitense ha riproposto la tesi secondo cui in Sudafrica sarebbe in corso una “genocidio dei bianchi”, denunciando presunte violenze sistematiche contro gli Afrikaner e l’esproprio delle loro terre – queste affermazioni sono state contraddette da prove e sentenze di tribunali, con Trump che aveva anche travisato un video clip e una fotografia, usandoli per sostenere le sue false affermazioni. Nelle sue parole, l’eventuale partecipazione di rappresentanti governativi americani costituirebbe una legittimazione di “gravi violazioni dei diritti umani” e dunque l’unica via sarebbe stata il boicottaggio totale.

Ma funzionari andranno, “after all”, come scrive il New York Times, e Ramaphosa dice che alla fine Washington “ha cambiato idea” sul Sud Africa. “Abbiamo ricevuto un avviso dagli Stati Uniti, un avviso che stiamo ancora discutendo con loro, su un cambiamento di idea sulla partecipazione in una forma o nell’altra al vertice”, ha dichiarato il sudafricano nel pomeriggio di venerdì, annunciando informalmente una qualche presenza statunitense. Le voci parlano di un “junior embassy official” che sarà alla fine presente alla cerimonia conclusiva.

La narrazione creata da Trump non ha convinto neppure molti dei sudafricani che lui intendeva difendere. Un gruppo di oltre quaranta personalità afrikaner ha firmato una lettera aperta per smentire categoricamente l’idea di una persecuzione razziale e, soprattutto, per respingere il tentativo di utilizzare la loro comunità come strumento nelle battaglie ideologiche d’oltreoceano.

Oltre alle accuse, Washington ha criticato a inizio anno, tramite il segretario di Stato Mario Rubio, anche la cornice tematica scelta da Pretoria per il vertice – “solidarietà, uguaglianza, sostenibilità” – e l’intenzione di rilanciare gli impegni sulle transizioni energetiche e sulla neutralità climatica, in linea con quanto discusso in Brasile lo scorso anno. La diplomazia sudafricana teme che la mancanza degli Stati Uniti possa complicare l’approvazione di un comunicato finale condiviso, come faceva notare Agathe Demarais (Ecfr). Il ministro degli Esteri Ronald Lamola, però, ha chiarito che il lavoro andrà avanti: chi è presente, ha detto, non può essere bloccato da chi decide di non esserci.

L’assenza americana non è l’unica. Anche Javier Milei ha preferito non volare a Johannesburg, così come i leader di Cina, Messico e Russia. Le ragioni variano: è noto che Xi Jinping tende a evitare gli appuntamenti multilaterali fuori dalla Cina, Vladimir Putin deve invece fare i conti con il mandato di arresto della Corte penale internazionale, mentre Città del Messico mantiene un suo stile distaccato dai grandi fori globali. Tutti invieranno comunque delegazioni. E gli Stati Uniti stessi hanno partecipato ai lavori preparatori, firmando accordi su sostenibilità del debito, qualità dell’aria e lotta ai traffici illeciti legati a fauna selvatica e minerali.

Paradossalmente, proprio la defezione americana potrebbe aprire spazi di manovra alle potenze medie che da tempo cercano un ruolo più incisivo nella governance globale. Brasile, Turchia e lo stesso Sudafrica intendono orientare l’agenda verso priorità che li accomunano: le transizioni energetiche, il finanziamento dell’adattamento climatico, la riforma dei meccanismi del debito sovrano. L’India, di fatto la principale delle potenze presenti con rappresentanti di massimo livello, spingerà sul dialogo con il Global South, che (come spiega Cnky) si allinea con la visione che l’Italia porta al tavolo globale sudafricano (come da scenario decodificato su D39).

Intanto, la Cina ha colto l’occasione per rafforzare la sua presenza nell’Africa australe, spingendo i propri obiettivi prioritari. Alla vigilia del summit, il premier Li Qiang – inviato da Xi al G20 – è arrivato in Zambia per una visita di due giorni dedicata all’ammodernamento della storica linea ferroviaria Tazara, che collega il Paese alla Tanzania. Un progetto da 1,4 miliardi di dollari destinato a diventare l’alternativa cinese al corridoio Lobito, sostenuto dagli Stati Uniti e progettato per attraversare Congo, Zambia e Angola (dove lunedì si svolgerà il vertice tra Ue e Unione Africana). Pechino controlla gran parte del mercato dei minerali tra Zambia e Repubblica Democratica del Congo, e l’espansione della capacità di trasporto promette di aumentare i ricavi della provincia zambiana del Copperbelt.

La missione di Li arriva in un momento delicato: a febbraio, uno sversamento tossico in una miniera gestita da una società statale cinese ha contaminato il principale fiume del Paese, alimentando risentimento pubblico. È la prima visita di un premier cinese in Zambia da quasi trent’anni, un segnale della volontà di Pechino di consolidare un rapporto strategico nonostante le tensioni – anche sfruttando il contesto multilaterale del G20, l’attenzione che esso porta sull’Africa, e l’assenza statunitense.

G20 al via senza Trump mentre Xi manda un inviato strategico 

Il boicottaggio del G20 da parte degli Stati Uniti, motivato dalle accuse infondate di Trump al Sudafrica, lascia spazio a un vertice segnato da assenze eccellenti ma guidato dalle potenze medie. Nel vuoto americano, la Cina rafforza la sua presenza in Africa australe con nuove iniziative infrastrutturali e minerarie

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