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L’accordo di principio annunciato oggi dagli Stati Uniti e dal Regno Unito sui prezzi dei farmaci, all’interno dello Usa–Uk economic prosperity deal, è più di una concessione negoziale o di un aggiornamento tecnico sulle politiche di rimborso dei medicinali. È un segnale politico che si inserisce in una partita molto più ampia: quella che riguarda il valore dell’innovazione e il modo in cui questo valore orienta (o dovrebbe orientare) le relazioni economiche tra le sponde dell’Atlantico. Washington e Londra hanno concordato che il Regno Unito aumenterà del 25% i prezzi netti riconosciuti ai nuovi farmaci rimborsati dal Nhs, interrompendo una tendenza decennale alla compressione della spesa per l’innovazione. Parallelamente, il governo britannico si impegna a evitare che questo incremento venga annullato da pressioni sistemiche sugli sconti e sulle contribuzioni richieste alle aziende, stabilizzando il regime Vpag con un tetto massimo del 15% dal 2026. Gli Stati Uniti, in cambio, sospenderanno l’applicazione dei dazi della Sezione 232 ai farmaci di origine britannica e si asterranno dall’aprire nuove indagini sui prezzi Uk ai sensi della Sezione 301.

UNA PARTECIPAZIONE COLLABORATIVA ALLA CATENA DELL’INNOVAZIONE

L’operazione va letta all’interno di una strategia più ampia dell’amministrazione Trump: riportare manifattura avanzata e supply chain critiche sul suolo americano, rafforzare il primato degli Stati Uniti nelle scienze della vita e assicurarsi che i partner che beneficiano di questo ecosistema contribuiscano al suo equilibrio. Quando l’ambasciatore Jamieson Greer, rappresentante per il Commercio Usa, sottolinea che gli americani non possono più “sovvenzionare” i prezzi comprimendo artificialmente i costi per altri Paesi sviluppati, e quando il segretario al Commercio degli Stati Uniti d’America Howard Lutnick insiste sulla necessità di “costruire, testare e produrre su suolo americano”, la direzione politica è evidente: una partecipazione equa (e collaborativa) alla catena dell’innovazione.

IL NODO DEI DAZI INVISIBILI

Questa evidenza contrasta con ciò che accade in Europa, dove il problema non è tanto la pressione esterna degli Stati Uniti quanto i “dazi invisibili” prodotti dai sistemi regolatori nazionali. L’Italia ne rappresenta un caso emblematico. Nel settore farmaceutico, la combinazione di tetti di spesa sistematicamente superati, ripiani retroattivi e payback pluriennali che ricadono sulle imprese crea un livello di imprevedibilità unico nel panorama europeo e finisce per scoraggiare gli investimenti nel medio-lungo periodo.

L’INCERTEZZA EUROPEA

Proprio ieri, su Formiche.net, Stefano Da Empoli osservava come l’ipotesi di nuovi oneri per il settore rischi di aggravare ulteriormente la situazione: “si rischia di introdurre nuovi oneri in un settore che già oggi sostiene una quota sproporzionata del controllo della spesa”. E aggiungeva un punto cruciale, spesso sottovalutato nelle discussioni politiche: “la mancanza di stabilità normativa finisce per aggravare ulteriormente i costi di chi innova”. Non è un dettaglio tecnico. È esattamente il tipo di incertezza che gli Stati Uniti stanno sfruttando per attrarre investimenti che altrimenti potrebbero restare in Europa. Il confronto è inevitabile. Mentre gli Stati Uniti vogliono premiare l’innovazione riconoscendone il valore strategico, legando insieme politica commerciale, politica sanitaria e politica industriale, l’Unione europea procede con un mosaico di normative frammentate che spesso producono l’effetto opposto. L’Europa invoca competitività e autonomia strategica, ma intanto applica regimi che scoraggiano la previsione di spesa per l’innovazione, rallentano l’accesso dei pazienti ai nuovi farmaci e costringono le aziende a muoversi in un ambiente incerto e disomogeneo. Sono, di fatto, dazi interni che rendono il continente meno attrattivo proprio nel momento in cui gli Stati Uniti hanno deciso di trasformare il loro mercato in un magnete per la manifattura ad alta tecnologia.

PERCHÈ URGE UN CAMBIO DI PARADIGMA

L’accordo Usa–Uk rappresenta quindi un campanello d’allarme. Dall’annuncio della most favoured nation policy, Washington ha dichiarato di voler pienamente utilizzare il tema dei prezzi farmaceutici come leva per riorientare gli incentivi internazionali all’innovazione. Nulla impedisce che un approccio simile venga proposto anche all’Unione europea. Se ciò dovesse accadere, i Paesi membri non potrebbero limitarsi a difendere le proprie industrie, ma dovrebbero dimostrare di aver costruito un ambiente che valorizza l’innovazione in modo coerente. La collaborazione transatlantica si traduce in un confronto tra modelli di crescita. Washington premia chi sostiene l’innovazione; Londra sembra aver scelto di adeguarsi rapidamente. L’Europa, invece, per non rimanere ai margini di questa trasformazione, deve eliminare quei costi interni che penalizzano il suo stesso potenziale sia in un’ottica di collaborazione transatlantica, sia per rendere il continente un hub tecnologico, non solo un “gigante regolatorio”.

Se il valore dell’innovazione è davvero, come ricorda Da Empoli, un elemento strutturale della competitività, allora non può essere celebrato a parole e ostacolato nei fatti. Su questa coerenza si giocherà la capacità dell’Europa di essere partner e non spettatrice degli eventi.

Ecco cosa insegna (all’Europa) l’accordo Usa–Uk sui farmaci

Washington vuole premiare l’innovazione e Londra si riallinea, mentre l’Europa rischia di restare imbrigliata in dazi invisibili e burocrazia. Se il valore dell’innovazione è davvero la posta in gioco, Bruxelles deve dimostrarlo nei fatti

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