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Il Medio Oriente rappresenta ad oggi una delle regioni con la più alta concentrazione di conflitti al mondo, i quali continuano a generare spillover regionali significativi e ripercussioni globali. Negli ultimi anni, la Cina si è proposta con crescente convinzione come mediatore nei conflitti mediorientali, mettendo in campo un modello di mediazione che si distingue in modo netto da quello di altri attori internazionali.

Jesse Marks, fondatore del Rihla Research and Advisory, è stato ospite in un seminario organizzato dal ChinaMed Project del Torino World Affairs Institute, in collaborazione con l’Università di Napoli L’Orientale. Attualmente in corso, questi seminari di ChinaMed costituiscono una serie di incontri online e aperti al pubblico che mirano a favorire il dialogo e ad approfondire il ruolo della Cina nella regione mediterranea.

Durante il suo intervento, Marks ha analizzato tre aspetti fondamentali: le motivazioni che spingono Pechino a mediare, le caratteristiche del suo modello di mediazione e le principali sfide emerse in particolari contesti.

Secondo le analisi, sono tre le motivazioni che spingono la Cina ad assumere il ruolo di mediatore in Medio Oriente. La prima è la necessità di preservare la stabilità regionale e proteggere gli investimenti. La stabilità è funzionale al mantenimento del proprio footprint in un’area cruciale per i suoi approvvigionamenti e la sua proiezione globale. In secondo luogo, la Cina utilizza la mediazione come strumento di costruzione del prestigio e dell’immagine di grande potenza responsabile, fa notare Marks. Presentarsi come attore capace di gestire crisi complesse senza ricorrere alla forza è parte integrante della narrativa cinese. Infine, la Cina vede la mediazione come veicolo per promuovere un ordine internazionale alternativo, basato sui princìpi di non coercizione, sovranità e partecipazione su base volontaria. In questo quadro, il modello occidentale differisce da quello cinese, il quale dà priorità ad un approccio neutrale e facilitativo, privo di pressioni sulle parti coinvolte.

Il modello cinese presenta alcuni tratti distintivi. La Cina tende a privilegiare forme di engagement a basso rischio e alta visibilità, in cui assume il ruolo di facilitatore del dialogo, più che come propositore di soluzioni al conflitto. Questo spesso si traduce in pratiche di shuttle diplomacy: Pechino si muove tra le parti e cerca di individuare interessi comuni senza imporre pressioni dirette. Alla base di questo modello di mediazione risiede un particolare focus sulle relazioni fra Stati. La Cina predilige un approccio strettamente statocentrico, trattando con i governi e mantenendo un equilibrio accurato con tutti gli attori regionali. Ciò spiega anche il sostegno offerto a governi controversi, come quello dell’ormai deposto Bashar al-Assad in Siria, nel tentativo di preservare la continuità statale e impedire scenari di regime change. In questo senso, Marks osserva come la Cina abbia sviluppato quella che definisce la “forza del non-uso della forza”: una capacità di attrazione derivante proprio dalla sua riluttanza a far leva su strumenti coercitivi.

I casi di studio offerti da Marks offrono uno sguardo concreto sulle potenzialità e sui limiti dell’approccio cinese. L’esempio più citato è il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran del 2023, nel quale Pechino ha fornito una piattaforma di negoziazione neutrale e accettabile per entrambe le parti. Il risultato ha dimostrato l’efficacia del modello non coercitivo, almeno in contesti in cui esiste un interesse convergente delle parti a ridurre le tensioni.

Diversa è invece la situazione in Siria. Qui il ruolo cinese è stato definito da interessi normativi e strategici diversi: evitare che si ripetesse quanto accaduto in Libia, dove Pechino aveva dovuto evacuare decine di migliaia di cittadini cinesi. Pechino ha così adottato una posizione marcata contro qualsiasi forma di intervento che potesse portare al cambio di regime. Ha bloccato ripetutamente iniziative al Consiglio di Sicurezza Onu e ha offerto una protezione politica al governo Assad, anche a costo di smentire la sua stessa retorica di imparzialità. Come ricorda Marks, questa è una delle eccezioni in cui Pechino si discosta dalla linea della non coercizione quando percepisce rischi normativi o strategici per sé.

Un altro caso significativo è il Sudan del 2008, dove la Cina sostenne un intervento di peacekeeping Onu per evitare un collasso politico che avrebbe potuto trascinare il Paese in un cambiamento di regime. Anche qui emerge la logica selettiva dell’approccio cinese: la neutralità non è un valore assoluto, ma uno strumento adattabile in base agli interessi fondamentali.

Guardando al futuro, Marks evidenzia come il paesaggio della mediazione globale stia cambiando. Le dinamiche multilivello che caratterizzavano molte iniziative occidentali — con un forte coinvolgimento di Ong, società civile e attori non statali — stanno lasciando spazio a processi più verticali e incentrati sugli Stati. In questo contesto, la Cina si muove con agio, facendo leva su think tank statali, università e canali istituzionali, senza aprire spazio significativo alla società civile.

La Cina come mediatore in Medio Oriente. L’analisi di Jesse Marks

Di Giorgia Facchini

L’analisi di Marks mostra una Cina pragmatica, attenta ai propri interessi, selettivamente imparziale e dotata di un modello di mediazione che funziona soprattutto dove le parti hanno già maturato la volontà di negoziare. Un modello che offre un’alternativa a quelli più interventisti, ma che incontra limiti evidenti quando la stabilizzazione richiede pressioni o garanzie che Pechino non è disposta a offrire. Il racconto di Giorgia Facchini (ChinaMed)

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