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Quali sono le prospettive a breve dell’ex Ilva (ora Acciaieria d’Italia)? Dal 1° gennaio 2026, a causa della prevista fermata delle batterie di cokefazione, il totale dei cassintegrati dello Stabilimento di Taranto crescerà di altre 300 unità, arrivando a toccare il numero di 6.000. Insomma, rispetto a ogni gruppo di 10 lavoratori, ben 6 saranno a breve in Cassa integrazione. Insomma per ogni gruppo di 10 lavoratori, ben 6 saranno a breve in Cassa integrazione. Queste sono le comunicazioni del governo ai segretari generali delle federazioni dei metalmeccanici, in quali, all’uscita dall’incontro hanno rilasciato le seguenti dichiarazioni: “il governo ci ha presentato di fatto un piano di chiusura”, ha detto il leader della Fiom-Cgil, Michele De Palma, “ci sono migliaia di lavoratori che finiscono in cassa integrazione e non c’è un sostegno al rilancio e alla decarbonizzazione. Contrasteremo la scelta del Governo in tutti i modi possibili”.

Il numero uno della Fim-Cisl, Ferdinando Uliano, ha affermato che “abbiamo avuto la sorpresa da parte del governo di collocare in cassa integrazione altre 1.200 lavoratori. Questa cosa per noi è inaccettabile, deve essere ritirata. Ci presenteremo ai lavoratori illustrando la situazione e decideremo le iniziative”. Il segretario generale della Uilm-Uil (il sindacato di maggioranza nello stabilimento, Rocco Palombella, ha aggiunto che “abbiamo deciso, consapevolmente e con grande responsabilità, di interrompere il confronto e ascoltare i lavoratori. Le proposte presentate sono inaccettabili. Utilizzano i lavoratori per fare cassa”.

Il governo non poteva non dire la sua ed esprimere “rammarico” per il fatto che la proposta di proseguire il confronto sull’ex Ilva “non sia stata accettata dalle organizzazioni sindacali”. L’esecutivo, riferisce una nota di Palazzo Chigi, “conferma in ogni caso la disponibilità a proseguire l’approfondimento di tutti gli aspetti e anche dei rilievi più controversi, sollevati dalle stesse organizzazioni sindacali alle proposte avanzate dal Governo per la gestione operativa dell’azienda in questa fase transizione”. Nel dettaglio, il nuovo piano illustrato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, prevede la realizzazione di un piano di decarbonizzazione in quattro anni, “nel più breve tempo possibile con mantenimento della continuità produttiva così da consentire all’Italia di diventare il primo paese europeo a produrre solo acciaio green”.

Sul fronte vendita, oltre che con Bedrock Industries e Flacks Group, il ministero fa sapere che sarebbero  in corso negoziati con un altro operatore estero ma segreto.  In tale contesto confuso, nel quale si intrecciano voli pindarici di diverso tipo e provenienza, i sindacati cercano di coprirsi le spalle, rivendicando che, almeno fino alla comparsa in scena di un soggetto industriale credibile quale candidato all’acquisizione di AdI, sia appunto il governo il solo che possa assumere, ancorché a tempo, un ruolo di guida diretta del nostro maggior gruppo siderurgico. Diciamoci la verità: stiamo assistendo alla morte dell’ex Ilva, anche se il suo cadavere, imbalsamato nel sarcofago di un ritorno al regime della nazionalizzazione, rivela tracce di un assassino a lungo premeditato stata assassinata.

Volendo potremmo persino spingerci, seguendo il lessico corrente, a creare un neologismo: l’ex Ilva è stata vittima di un opificidio. Gli esecutori materiali del crimine sono tanti, colpevoli di commissioni (la magistratura di Taranto, le istituzioni pugliesi, i vari comitati fondamentalisti, i partiti a caccia di mode e di consenso ad ogni costo) o di omissioni (i sindacati che non hanno avuto il coraggio di sfidare la stucchevole sacralità della magistratura, l’estremismo ambientalista e l’opportunismo delle forze politiche e delle istituzioni locali). Ma i mandanti sono stati gli ideologismi malati che di volta in volta hanno violentato il dibattito politico, imponendosi come unica linea di condotta politicamente corretta.

Al momento del sequestro giudiziario, l’Ilva era il più grande stabilimento siderurgico d’Europa; i suoi laminati servivano tutta l’industria manifatturiera nazionale. A Taranto l’acciaieria rappresentava il 75% del Pil di quel territorio e il 76% della movimentazione del porto. Per il solo approvvigionamento delle materie prime dell’Ilva (il suo parco geo-minerario era di 78 ettari) approdavano nel porto, annualmente, ben 1300 navi. L’85% dei prodotti Ilva transitava per il porto. In sostanza, tra occupazione diretta ed indiretta, 20mila famiglie, solo a Taranto, dipendevano dall’Ilva. L’Agenzia dell’ambiente della Puglia aveva certificato, nell’ambito delle sue competenze, che i parametri dello stabilimento di Taranto erano nella norma e di conseguenza il management era adempiente. Occorreva inventarsi un pretesto per rovesciare la verità. L’allora governatore della Puglia Nichi Vendola (il Padre Pio laico della sinistra pugliese) fu accusato (e condannato in primo grado) di aver fatto pressione sul presidente dell’Agenzia (che smentì) perché ammorbidisse il parere di conformità.

Da decenni – ecco un problema-chiave – le tecnologie di produzione industriale nella Ue sono stabilite sulla base degli obiettivi di protezione della salute identificati a livello europeo d’accordo con l’Oms. Ma, nello stabilire questi parametri, gli obiettivi di risanamento ambientale devono essere compatibili con altre esigenze riguardanti i diversi settori produttivi, come i problemi di ammortamento degli impianti, delle risorse da investire, di coordinamento tra i diversi Paesi. Soprattutto, i sistemi produttivi hanno necessità di avere dei riferimenti precisi ai quali attenersi per essere in regola. Ma il cambiamento procede per gradi (si pensi all’industria dell’auto) sulla base di regole uniformi che diventano di volta in volta non l’indicatore di una sicurezza assoluta, ma uno standard sostenibile e progressivo a cui attenersi in un quadro di certezza del diritto.

Nel caso dell’ex Ilva la magistratura non volle mai limitarsi ad accertare se lo stabilimento avesse rispettato le norme vigenti e ottenuto le autorizzazioni previste dagli organi preposti alla vigilanza; poiché le emissioni inquinavano dovevano essere eliminate secondo il principio criminale del iustitia fit, pereat mundus. Dello stabilimento si occuparono ben due procure (quella di Taranto e quella di Milano) che, tanto per aumentare la confusione, giunsero a valutazioni diverse ed impartirono direttive opposte. Poi all’invadenza della magistratura e all’ambientalismo scatenato si aggiunse, con il governo Conte 1 – l’operato della banda degli onesti (figurarsi parlare con loro di scudo penale, proprio quando si stava perfezionando l’ingresso di Arcelor-Mittal (che si è poi rivelata la sola soluzione possibile, ma sprecata). In questo passaggio ci fu un primo errore dei sindacati che non vollero chiudere l’intesa con Arcelor Mittal quando il governo Gentiloni era in carica per l’ordinaria amministrazione in attesa del nuovo governo dopo le elezioni del 2018, finendo poi per trovarsi nelle braccia dell’esecutivo giallo/verde.

Il superministro Luigi Di Maio formulò, a vanvera, gravi sospetti di illegittimità in occasione di una comunicazione urgente alla Camera. Resta, poi, incomprensibile la guerra dichiarata ad Arcelor Mittal fin da quando fu negato ai suoi manager quello scudo penale riconosciuto prima agli amministratori straordinari poi a quelli che subentrarono nella gestione. L’avvenuta soppressione dello scudo penale’ fu afferrato al volo da Arcelor Mittal per svincolarsi dagli impegni assunti con il governo; ma non era certamente un problema secondario di cui, in quel contesto, qualsiasi gestore degli impianti avrebbe potuto fare a meno. “Qualcuno investirebbe 3,6 miliardi”, si chiese un bravo sindacalista come Marco Bentivogli, “in uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro giudiziario l’area a caldo? In un impianto per il quale la magistratura ha chiesto il fermo dell’altoforno? In una struttura che deve essere messa a norma sapendo che nel corso del tempo che occorre per farlo, non potendo fermare l’attività, i suoi manager potrebbero essere chiamati a rispondere di reati conseguenti a fatti penali riferibili alle gestioni precedenti?”

Per tutta la XVIII legislatura la questione dell’ex Ilva– anche durante il governo Draghi – restò in balia dei suoi carnefici. I commissari man mano nominati e sostituiti si videro chiudere uno dopo l’altro gli altiforni e negata la possibilità di effettuare il risanamento ambientale possibile come la copertura dei giacimenti di minerale che avrebbe avuto una conseguenza positiva sul deposito delle polveri nel vicino quartiere di Tamburi Dopo la vittoria della destra, si pensava che tante ubbie sarebbero venute meno. Sbagliato.

Il ministro Urso si prese la briga di liquidare del tutto Arcelor-Mittal (la società andò ad investire in Francia) e si mise alla ricerca di acquirenti propensi a produrre acciaio pulito. Oggi l’organizzazione operativa di quello stabilimento somiglia di più a un forno di un grande McDonald per sfornare hamburger, hot dog e patatine, piuttosto che misurarsi con l’impresa titanica di produrre acciaio. Mi sembra evidente che non ci sia lavoro per 6 lavoratori su 10, a meno che lo stabilimento non si dedichi alla coltivazione delle cozze. Ammesso e non concesso, è venuto il momento di dirlo, che si riesca a mantenere un residuo di quel imponente stabilimento alla ricerca dell’acciaio green (un ossimoro ovvero l’accostamento di due parole con opposti significati) i livelli produttivi del nuovo stabilimento non consentiranno l’impiego di tutti gli attuali occupati. Si prepara allora, come per l’Alitalia, un regime speciale di cassa integrazione per gli esuberi.

I sindacati devono recitare il mea culpa, non se la sono sentita di contrastare anche con la lotta i principi del politicamente corretto: la sacralità della magistratura, il primato di un ambientalismo catastrofista e l’opportunismo di istituzioni politiche. Per questi motivi sono stati indotti a farsi carico di esigenze di riconversione dello stabilimento tuttora incompatibili con la realtà produttiva della siderurgia e attente a farsi carico del radicalismo ambientalista come condizione per la salvezza della fabbrica. Senza accorgersi che non si salva, almeno ancora per molti anni, uno stabilimento siderurgico trasformandolo in una pizzeria con forno elettrico.

Vi racconto le responsabilità dei sindacati nell'opificidio dell'ex Ilva. La versione di Cazzola

I sindacati sono stati indotti a farsi carico di esigenze di riconversione dello stabilimento tuttora incompatibili con la realtà produttiva della siderurgia e attente a farsi carico del radicalismo ambientalista, come condizione per la salvezza della fabbrica. Senza accorgersi che non si salva, almeno ancora per molti anni, uno stabilimento siderurgico trasformandolo in una pizzeria con forno elettrico. Il commento di Giuliano Cazzola

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