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Mentre durante un comizio in Delaware, il presidente statunitense Joe Biden parlava dei “progressi” fatti per negoziare una pausa umanitaria (sotto cui ci sarebbe un progetto di liberazione di prigionieri civili), Hamas bloccava le uscite dal valico di Rafah tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. I miliziani non vogliono che stranieri, persone con doppia nazionalità e i palestinesi feriti lascino il proprio territorio e hanno fermato circa 700 persone che aspettavano di lasciare Gaza, dichiarando che vogliono garanzie che Israele non colpirà le ambulanze che trasportano i feriti e che esse possono lasciare la Striscia di Gaza.

Tutto si lega, anche con interessi comunicativi, all’attacco di venerdì a un convoglio di soccorso davanti all’ospedale al Shifa, che secondo Israele e Stati Uniti trasportava militanti e armi. Il raid è stato fortemente condannato dalle Nazioni Unite ed è l’ultimo episodio sanguinoso e controverso di questo conflitto — scatenato dall’attacco orribile con cui Hamas ha colpito Israele il 7 ottobre, e inasprito dalla violenza della risposta israeliana.

Mentre Hamas rivendica la propria posizione, gli Stati Uniti dicono che l’evacuazione in realtà è stata bloccata perché l’organizzazione palestinese aveva inserito tra i feriti da curare alcuni miliziani (erano circa un terzo) e né Washington né Il Cairo — che sta gestendo la situazione non fosse altro per ragioni di continuità geografica — non erano d’accordo.

Oggi, il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, incontrerà il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, a Ramallah: è il primo contatto ufficiale del genere dall’inizio della guerra. Nei giorni scorsi, Blinken ha espresso il desiderio che un’Anp efficace e rivitalizzata governi e si assuma la responsabilità della sicurezza a Gaza.

È il grande tema del momento: gli Stati Uniti vogliono capire adesso cosa succederà dopo nella Striscia. Ossia, una volta che Israele avrà “dismantle” Hamas dalla Striscia (per usare la scelta semantica israeliana appoggiata dagli americani), a chi toccherà il controllo del territorio? Blinken ne ha parlato ieri in un summit ospitato dalla Giordania, innanzitutto con i padroni di casa e gli egiziani — i due sono gli attori regionali che hanno più presa sui palestinesi — e poi con sauditi, qatarini e libanesi.

Il percorso previsto è: eliminazione totale di Hamas da Gaza, creazione di una forza di interposizione a guida Onu (composta da militari dai Paesi arabi e forse da qualche nazione europea), portare l’Anp a governare la Striscia sbloccando i fondi finora congelati a Hamas. Su questo percorso però, teoricamente punto di partenza per la successiva definizione di una Stato palestinese, il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, con il collega giordano hanno espresso pubblicamente un’urgenza diversa, sottolinea Alessia Melcangi, docente della Sapienza e analista dell’Atlantic Council.

Il ministro egiziano ha chiesto di “fermare questa follia”, appena dopo l’incontro con Blinken, perché “ogni bomba che cade allontana la pace e crea una nuova generazione di odio”. Per Melcangi, “l’Egitto non può retrocedere di un passo sulla centralità raggiunta nel dossier: se lo fa, rischia di rimetterci praticamente tutto, e quello che Il Cairo sta facendo è gestire un delicato equilibrio tra la difesa della sua posizione storica di riferimento per i palestinesi e il controllo delle piazze in funzione delle elezioni di dicembre”.

Mentre cresce il lavorio diplomatico attorno al piano che sta uscendo dal tour di Blinken, è interessante osservare che la crisi — e la capitalizzazione dei suoi interessi — passano anche dal Nordafrica. Se per l’Egitto è fondamentale essere nella partita in corso e in quella strategica per il futuro, altre nazioni della regione vogliono un proprio spazio e non sempre si muovono con apertura e proattività.

Recentemente il Parlamento tunisino ha per esempio approvato due dei sei articoli di una legge (al limite dell’antisemitismo) con cui verrebbe criminalizzato la normalizzazione dei rapporti con Israele. C’e stato caos, perché il presidente factotum Kais Saied avrebbe fermato il procedere del voto, temendo che la legge potesse essere troppo dura e complicare gli interessi e la sicurezza della Tunisia. “Saied ha già preso delle posizioni anti-israeliane, che declina in parte anche come anti-occidentali, in passato. In questo caso ha sottolineato infatti la necessità di fare riferimento a un articolo esistente nel codice penale sul reato di tradimento, il quale prevede che ‘chiunque abbia a che fare con l’entità sionista è un traditore del popolo palestinese e colpevole di alto tradimento’, aggiungendo di non accettare ‘contrattazioni, offerte, pressioni o ricatti da parte di soggetti nazionali o stranieri’, come aveva già fatto ad agosto”, spiega Melcangi.

La docente ricorda che non esiste la parola “normalizzazione” nel vocabolario del presidente tunisino, che a luglio dello scorso anno ha contratto le capacità democratiche del Paese concentrando su di sé buona parte del potere. “Ora è evidente che, per usare le sue stesse parole, ‘non è il momento opportuno per impegnarsi in dibattiti inutili o discutere terminologie giuridiche inutili quando i palestinesi sono vittime dei crimini più atroci’, e questa linea ha un senso anche per costruire una posizione propria su questa crisi. Ricordiamoci che Saied fu colui che evocò una cospirazione sionista alla base dell’uragano Daniel che devastò Derna a settembre”.

Se la Libia è anche in questo caso troppo frammentata per poter rappresentare una posizione di rilievo, insieme alla Tunisia c’è un altro Paese nordafricano che si pone in una posizione di chiusura nei confronti di qualsiasi trattativa con Israele: l’Algeria.

Il Parlamento algerino, il 2 novembre, ha votato all’unanimità per fornire al presidente Abdelmadjid Tebboune un’autorizzazione preventiva per entrare in guerra al fianco di Hamas e a “difesa della Palestina”.

“Il voto è arrivato il giorno dopo l’anniversario della guerra di liberazione dell’Algeria contro il colonialismo francese, e potrebbe esserci anche un aspetto emotivo e un interesse narrativo. Ma Algeri è su una posizione anti-israeliana, tenuta anche in funzione anti-marocchina. Rabat, che ha un contenzioso aperto con l’Algeria, ha infatti aderito agli Accordi di Abramo, normalizzando i rapporti con Israele. Ora Algeri vuole sottolineare le differenze, soprattutto in un momento così sensibile, cercando di diventare il punto di riferimento delle istanze palestinesi e creando così attorno a questo un rafforzamento dello standing internazionale”.

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