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Da alcuni giorni si parla della richiesta con cui il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, avrebbe invitato il Qatar a moderare la copertura di Al Jazeera sulla guerra di Israele contro Hamas. È un dibattito tecnico, che coinvolge più gli addetti ai lavori (giornalisti, policy maker e politici internazionali) che le cittadinanze. Ma è interessante perché i suoi effetti avranno ricadute sulle masse, sulle percezioni delle collettività.

Le preoccupazioni dell’amministrazione Biden sono dirette: si teme che il canale stia infiammando l’opinione pubblica e aumentando i rischi di un conflitto più ampio. Al Jazeera è potente, ben strutturato e ottimamente informato: ha interlocutori ovunque nel mondo, ha reporter sul posto in tutti i continenti. In una fase storica in cui le percezioni dei cittadini guidano l’opinione pubblica tanto quanto il dibattito politico, influenzando pesantemente l’azione dei governi (costantemente in cerca di consenso e stabilità), la copertura giornalistica è determinante. Tanto più se quelle percezioni sono alterate di continuo da attività di disinformazione istintiva e campagne psicologiche adeguatamente studiate.

Nel warfare informativo che circonda il conflitto israelo-palestinese, Al Jazeera è una potenza. E il collegamento diretto con la leadership di Doha rende automaticamente il Qatar una potenza — in grado di usare l’informazione come asset strategico alla stregua delle bombe. Non è un caso se David Barnea, il capo del Mossad, i servizi segreti esteri israeliani, sia stato nei giorni scorsi nella capitale del Golfo. Doha – principale finanziatore internazionale della Striscia di Gaza – sta trattando per la liberazione degli oltre duecento ostaggi ancora in mano a Hamas, ma Barnea potrebbe benissimo aver parlato anche del ruolo dell’emirato sulla narrazione attorno al conflitto e a Israele.

Il primo a scrivere che Blinken avrebbe sollevato la questione della copertura del canale satellitare con il primo ministro qatarino, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim al-Thani, è stato Axios, su certe cose informatissimo. Poi Blinken avrebbe rivelato la richiesta durante un incontro con i leader ebraici statunitensi: ossia il capo delle relazioni internazionali americane, che ha speso una decina di giorni in Medio Oriente appena esplosa la crisi seguiti l’infame attacco di Hamas, avrebbe messo la richiesta tra le priorità della sua campagna diplomatica.

Al Jazeera è una delle poche organizzazioni giornalistiche con un ufficio funzionante a Gaza, il quale le consente di riferire sull’impatto distruttivo dei pesanti bombardamenti israeliani sul territorio (che secondo il ministero della Sanità palestinese hanno finora ucciso oltre 8mila persone, di cui quasi tremila minori). Il suo impatto sul mondo arabo è estremo. Per capirci: questa settimana il corrispondente capo di Al Jazeera dalla Striscia di Gaza, Wael al Dahdouh, è entrato a far parte di questa storia quando tutta la sua famiglia è rimasta uccisa in un attacco aereo israeliano su una casa nel campo profughi di Nuseirat, dove si erano trasferiti dopo l’avvertimento di Israele (il 13 ottobre il governo Netanyahu aveva chiesto ai residenti di spostarsi dal nord di Gaza).

È una vicenda tragica che rende l’idea del peso che può avere una sua notizia, un suo reportage. Al Jazeera ne è totalmente consapevole. In un mix tra copertura/capacità giornalistica e fascinazione, la rete ha trasmesso il filmato di al Dahdouh che si accasciava per il dolore mentre guardava il corpo di suo figlio nell’obitorio di un ospedale. Anche sua moglie, sua figlia e suo nipote sono stati uccisi nel bombardamento di martedì scorso, insieme ad altre 21 persone. “Si vendicano di noi sui nostri figli?”, ha detto al-Dahdouh inginocchiandosi sul figlio. In una dichiarazione, il network ha affermato di “condannare fermamente l’attacco indiscriminato e l’uccisione di civili innocenti a Gaza, che ha portato alla perdita della famiglia di Wael al Dahdouh e di innumerevoli altre persone”.

Val la pena ricordare che è ancora fresca la vicenda di Shireen Abu Akleh, altra reporter di Al Jazeera, uccisa l’anno scorso mentre faceva un servizio su un raid israeliano in Cisgiordania. In quell’occasione, l’esercito israeliano ha poi ammesso che c’era una “alta probabilità” che a spararle fosse stato un soldato, dopo aver inizialmente insistito sul fatto che fosse stata uccisa da colpi di arma da fuoco palestinesi. Ci sono indagini indipendenti che sostengono che sia stata colpita deliberatamente.

Al Jazeera Media Network, finanziato dalla famiglia reale del Qatar, insiste sulla sua indipendenza editoriale. Ma la rete è ampiamente considerata dai governi stranieri come uno strumento di soft power per la monarchia del Golfo, come aveva spiegato su Formiche.net Philip Seib, giornalista e Public Diplomacy e di Relazioni internazionali, vice-dean dell’University of Southern California e autore del libro mastro sul tema (“Al Jazeera Effect”, 2008). In passato, per esempio, le attività informative di Al Jazeera sono state tra le cause centrali dell’isolamento del Qatar imposto da di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Una copertura più meno aggressiva contro gli altri regni del Golfo è tra gli elementi accordati nella cosiddetta “riconciliazione di al Ula” che ha portato Doha a riaprire le relazioni con gli altri Paesi della regione.

La scorsa settimana, il governo israeliano ha approvato misure d’emergenza che porteranno alla chiusura dell’ufficio del network in Israele, con la motivazione che le sue trasmissioni promuovono Hamas ed equivalgono a “incitamento”. La questione deve ancora essere approvata in via definitiva dal gabinetto di sicurezza. È una misura estrema, ma va considerato che Israele è un Paese in guerra e prende decisioni collegate a questo contesto. D’altra parte, Al Jazeera, soprattutto nel mondo arabo, è considerata fonte autorevole sulla guerra in corso perché ha continuato a concentrarsi sul conflitto israelo-palestinese anche dopo che altri media arabi hanno ridotto la loro copertura. È quello stesso mondo arabo che ha avuto d’istinto una reazione non particolarmente pro-israeliana.

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