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La settimana scorsa il Financial Times ha dato conto delle modalità con cui i sottoscrittori statunitensi di fondi di private equity stanno già in questi mesi mettendo in atto il tanto discusso decoupling tra Stati Uniti e Cina, tanto che ai broker cui molti gestori fanno ricorso per raccogliere capitali può venire rivolta una reprimenda per il solo fatto di aver proposto a un limited partner a stelle e strisce un’opportunità di investimento che abbia a che fare con la Cina.

Tale decoupling può manifestarsi, da parte americana, impedendo che sponsor cinesi compaiano nel novero dei sottoscrittori (o semplicemente imponendo che questi non superino una certa soglia – bassa – del totale raccolto), oppure, spesso per facilitare la convivenza con altri investitori non avversi alla Cina, ponendo come condizione un non coinvolgimento cinese nei comitati del fondo così come la preclusione dalla possibilità di co-investire nelle società target.

La vicenda risulta di particolare rilevanza perché negli ultimi anni la quota delle operazioni di fusione e acquisizione che hanno visto coinvolti fondi di private equity rispetto al totale è cresciuta fino a toccare nel 2022 il 36% (fonte: Harvard Law School Forum on Corporate Governance), contribuendo così a caratterizzare tali soggetti, già barbarians at the gate secondo la definizione del celebre libro di Bryan Burrough e John Helyar del 1989, come i nuovi pilastri del sistema economico-finanziario globale.

Incrociando il dato in questione con quello, elaborato da Preqin e citato dal quotidiano della City londinese, per cui la raccolta dei fondi di private equity globali dipende per circa il 50% da investitori nord-americani, si delinea un quadro per cui la cloche del sistema è ancora saldamente nelle mani di questi ultimi, considerando anche il fatto che dei 20 fondi che più hanno raccolto negli ultimi 5 anni ben 17 (fonte: Private Equity International) provengono dalla medesima area geografica così che la presa dei sottoscrittori viene ulteriormente rafforzata.

La conclusione che sembra potersi trarre è che qualsiasi tentativo, da parte di investitori e soprattutto aziende non americane, di compiere scelte strategiche non allineate con le istanze anti-cinesi può condurre ad esiti nefasti, come il vedersi precluso tout court l’accesso al private capital, la necessità di questo ultimo, se già presente nel capitale dell’azienda, di uscire, oppure, infine, la possibilità che presto i vincoli dei gestori di private equity vengano fatti propri anche dai fornitori di capitale di debito.

Il tutto, peraltro, in un contesto già reso difficile dal generale incremento dei tassi di interesse e dalla prospettiva che questi possano rimanere elevati a lungo, con tutto ciò che ne deriva in termini di difficoltà di realizzare investimenti effettuati in anni più benigni e di raccogliere risorse sul mercato quando l’alternativa risk-free offre rendimenti particolarmente attraenti.

Un’ultima considerazione sulla postura dei fondi pensione americani. Da tempo indiscussi protagonisti dei round di raccolta dell’universo private equity, specie nel periodo in cui i tassi bassi li spingevano a esplorare il mondo degli investimenti alternativi per accrescere i rendimenti, questi investitori espressione delle comunità locali d’Oltreoceano si sono recentemente divisi tra coloro che propugnano l’inserimento delle tematiche Esg nei processi decisionali d’investimento e coloro, invece, che l’avversano vigorosamente. Questa lacerazione, a sua volta riflesso di quella più generale di cui soffre il tessuto socio-politico americano in questi anni, sembra aver trovato una (almeno parziale) ricomposizione nel comune posizionamento sul piano geopolitico. Anche di ciò dovrà tener conto la comunità degli investitori globali e, ancor di più, il decisore politico.

Così la finanza globale si sta adattando al decoupling Usa-Cina

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