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Il Caucaso costituisce il “ventre molle” meridionale della Federazione Russa. È un’area turbolenta, storicamente teatro di rivalità fra gli imperi russi, ottomano e persiano. Soprattutto dopo la fine della guerra fredda, con la scomparsa dell’egemonia stabilizzante di Mosca, è stata caratterizzata dalle tensioni e dagli scontri armati fra l’Armenia e l’Azerbaijan. Con la Georgia, entrambe hanno conosciuto anche fasi di avvicinamento all’Occidente, considerate con preoccupazione dalla Russia.

L’area ha un’importanza strategica per Mosca. Apre la via ai ricchi bacini del Volga e del Don. Consente alla Russia il controllo del Mar Caspio. Il conflitto in Ucraina ha mutato la rilevanza economica e politica della regione anche per l’Occidente. Non perché esso continui – come avveniva nel 2008 prima della reazione russa in Georgia – a progettare di ammettere qualche Paese nella Nato e ad esercitare così una potenziale pressione sul Cremlino anche da Sud, ma per l’impatto diretto e indiretto dell’aggressione russa all’Ucraina.

Diretto, per il fatto che le forze russe, a parte la loro dimostrazione di inefficienza in Ucraina, sono troppo impegnate in quel teatro per continuare a garantire, con la loro sola esistenza, la stabilità dell’intera regione, ma anche per il mutamento della politica del Cremlino, prima decisamente orientata al sostegno dell’Armenia, ma oggi molto più articolata a favore soprattutto dell’Azerbaijan, in coordinamento con la politica di Ankara, Paese Nato con il quale i rapporti degli altri membri dell’Alleanza sono spesso difficili, pur restando indispensabili.

Indiretta, perché l’Azerbaijan – superiore tra volte per superficie e popolazione e sei volte per Pil rispetto all’Armenia – ha accresciuto notevolmente la sua superiorità militare e la sua importanza geopolitica. È divenuto essenziale per l’Occidente per il transito del petrolio e del gas, lungo il cosiddetto “corridoio di mezzo”, che aggira il territorio russo, dato il blocco delle importazioni energetiche dell’Europa da Mosca. Questo spiega perché nel breve conflitto iniziato il 19 settembre scorso (il terzo grande conflitto fra Azerbaijan e Armenia), le forze di quest’ultima siano state completamente travolte, si siano arrese senza condizioni e abbiano dovuto abbandonare l’intera regione del Nagorno-Karabakh (per gli armeni Repubblica indipendente di Artsakh dal 1991, proclamata tale nel corso della prima grande guerra fra Erevan e Baku e abitata da una popolazione per l’85% armena).

Già nella prima guerra si era verificato un esodo – in parte spontanea in parte forzato delle popolazioni – molto simile a quello avvenuto in Bosnia-Erzegovina negli anni 1990. Data l’importanza dell’Azerbaijan rispetto all’Armenia, le proteste da parte occidentali sulla violazione dei diritti umani sono state molto limitate. Lo sono state anche quelle geopolitiche da parte di Mosca, che pure era stata garante della stabilità dell’area, cioè del fatto che la tregua d’armi non fosse violata.

Mosca fu mediatrice nel secondo conflitto come era stata per quello del 1992-94 prima a Biskek e poi, nel quadro dell’Osce, a Minsk. Negli ultimi due conflitti non fu così favorevole all’Armenia come lo era stata nel primo. Il secondo grande conflitto si verificò con la guerra delle “sei settimane” del 2020. Provocò 7.000 morti e permise all’Azerbaijan la riconquista dei sette distretti conquistati attorno al Nagorno-Karabakh dall’Armenia negli anni ’90. Questa volta i profughi furono 20.000, che si aggiunsero ai 300.000 della prima guerra. Mosca mediò con Ankara il conflitto fra le parti, confermando lo schieramento di una forza di Peacekeeping di un paio di migliaia di soldati sul corridoio di Lachin che collega il Nagorno-Karabakh all’Armenia. Non si assunse però il compito di difendere il Nagorno-Karabakh, dato che esso è formalmente azerbaigiano. Formalmente l’inazione di Mosca è quindi legittima. Il fatto però che la sua presenza non sia riuscita a dissuadere Baku dall’attacco, la dice lunga sulla perdita di credibilità del Cremlino nelle aree periferiche del suo vecchio impero.

I “nodi” potrebbero venire al pettine prossimamente. I nazionalisti azerbaijani continuano a chiamare l’Armenia “Azerbaijan occidentale” e a chiedere al governo Aliyev di occupare l’Armenia e di unire i due Paesi. Teoricamente la Russia dovrebbe intervenire a difesa dell’Armenia. Essa fa parte – unitamente alla Bielorussia e a quattro delle cinque repubbliche centrasiatiche della Csto (Collective Security Treaty Organization), che Putin considera la “Nato Orientale”. A parer mio, in caso di attacco di Baku a Eravan, Putin troverebbe qualche scusa per non intervenire. È troppo impegnato in Ucraina e poi non vorrebbe rischiare d’indebolire la sua collaborazione con la Turchia. Ankara è strettamente legata a Baku, per lei “porta d’accesso” all’Asia centrale, alle sue ricchezze e alla sue popolazioni “turchiche”.

Putin non è quindi preoccupato degli appelli fatti dagli Usa e dall’Ue a favore dei diritti umani degli armeni e delle loro condanne per la “pulizia etnica” che segna la scomparsa del Nagorno-Karabakh anche come regione solo amministrativamente autonoma. Sa che l’Occidente è troppo diviso, imbelle, impegnato nel sostegno all’Ucraina e dipendente dai flussi energetici attraverso l’Azerbaijan per assumere iniziative di rilievo, cioè per intervenire militarmente invece di limitarsi a fare chiacchiere. Anche in caso di nuovo attacco azero, nessuno “muoverebbe un dito”. D’altronde, Mosca è sempre più irritata con gli armeni. Sa che i 250.000 armeni che vivono in Ucraina combattono contro le sue forze. Inoltre, ha inteso come atto ostile l’orientamento di Erevan di aderire al Trattato di Roma sulla Corte Internazionale per i Crimini di Guerra, che ha spiccato un mandato di cattura a carico di Putin.

Putin sa che un mancato intervento a favore dell’Armenia che ne è membro segnerebbe la fine del Csto. Ma quest’ultimo è in pratica già morto. Non avrebbe nessuna difficoltà a riconoscerlo, ponendo così una parola fine al tradizionale sostegno dato dal Cremlino all’Armenia. Gli abitanti dell’ex-Nagorno-Karabokh lo sanno. Fuggendo in Armenia, danno fuoco alle loro case per non lasciarle al loro odiato nemico storico. Sanno che non vi faranno mai ritorno.

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