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Logica vorrebbe che gli investimenti per la produzione dei “beni comuni” fossero finanziati direttamente dalla Ue. Si tratta di quei beni che sono indispensabili per giungere ai cambiamenti invocati dagli accordi realizzati in sede di Consiglio europeo. Beni che riguardano la trasformazione energetica, al fine di dare seguito agli “accordi di Parigi” sul clima. Oppure la digitalizzazione, onde non perdere il passo con il futuro. Cui sarebbe forse necessario, visto l’emergenza legata all’invasione di Putin dell’Ucraina, aggiungere le spese per la sicurezza.

Scelte eventuali destinate a dare seguito e continuità alla Next Generation Ue: le facilities che hanno caratterizzato il varo della più importante misura programmatica europea dalla nascita dell’euro. In questo caso, tuttavia, non sarebbe necessario prevedere versamenti a fondo perduto (grants), come nel caso precedente, ma solo prestiti (loans) erogati da un Organismo europeo – una speciale di Mes (il Meccanismo europeo di stabilità) – capace di finanziarsi sul mercato. Ed il fatto che Pierre Gramegna, il suo direttore esecutivo, si sia dichiarato disposto ad esaminare l’ipotesi di una sua riforma, non può far altro che piacere.

Fin troppo evidenti le ragioni politiche di una simile proposta. Di fronte ad una Russia ed una Cina che cercano di estendere la loro egemonia puntando sul mondo variegato dei Brics e dei moderni “non allineati”, l’Europa darebbe prova di esistere. Come entità sovrana e non solo come semplice espressione geografica, seppure unità nel nome della moneta unica. Ma non meno importanti sarebbero le ragioni economiche – finanziarie a supporto di una simile azione. Che potrebbe essere facilmente classificata in una strategia, per usare una terminologia diplomatica, win win. Vale a dire in un’offerta vantaggiosa per tutti.

Si considerino innanzi tutto i rischi che, come nel caso del Mes, potrebbero essere limitati. Non si tratterebbe infatti di mettere in comune le diverse finanze dei Paesi europei. I policy maker tedeschi possono continuare a dormire sogni tranquilli. Ma mettere in piedi una nuova società non necessariamente di diritto lussemburghese, il cui capitale sia finanziato, pro quota, da tutti gli Stati membri. Conferimento che segnerebbe il rischio massimo di ciascun partecipante. Nel senso che, in caso di fallimento, la perdita massima sarebbe quella relativa alla quota conferita. La società, a sua volta, sfruttando il proprio merito di credito, si indebiterebbe, a leva, sul mercato internazionale, per raccogliere la provvista necessaria per finanziare gli investimenti dei singoli Paesi membri, nei settori precedentemente indicati.

Il vantaggio immediato sarebbe quello di poter garantire una provvista ad un costo minore, spuntando tassi d’interesse più bassi, rispetto a quanto potrebbero fare i singoli Paesi. Compresa questa volta anche la Germania, visto il suo non brillante stato di salute. La società si finanzierebbe sul mercato, emettendo propri titoli, con rating migliore. Titoli destinati a trasformarsi in safe assets, in grado di offrire un rifugio sicuro per gli investitori istituzionali (Stati, Fondi d’investimento, Fondi pensione e via dicendo) colmando l’attuale lacuna (scarsità di attività sicure) esistente sui mercati internazionali.

Naturalmente lo Stato che riceverà i finanziamenti, dovrà restituirli, ma secondo un piano di ammortamento concordato ed alle condizioni migliori rispetto a quanto potrebbe ottenere da una negoziazione in solitario. E non sarebbe questo l’unico vantaggio. Dal punto di vista della sua contabilità interna, infatti, l’impatto sul bilancio sarebbe diluito nel tempo. Tra le maggiori uscite, solo la quota annuale di ammortamento. Ma sugli effetti macroeconomici, varrebbe il moltiplicatore fiscale. Vale a dire l’impatto (maggiore dell’unità) degli investimenti aggiuntivi che i maggiori finanziamenti internazionali renderanno possibili. Investimenti destinati ad incidere sul tasso di crescita e, quindi, attraverso questa via incidere positivamente sul rapporto debito/Pil.

Questo, quindi, lo schema di una strategia win win di cui si diceva all’inizio. I cui sviluppi richiedono solo il superamento di vecchie paure e chiusure nazionaliste, oggi sempre più fuori dal tempo, considerato quanto sta avvenendo nella geopolitica del mondo. Ci sarà questo coraggio? Difficile rispondere. Il dato positivo è che nella discussione sulla riforma delle regole del Patto di stabilità su sia sviluppato un confronto molto serrato. Da una parte Paesi come la Germania, l’Austria, la Bulgaria, la Repubblica Ceca, la Croazia, la Danimarca, l’Estonia, la Lituania, la Lettonia, il Lussemburgo e la Slovenia. Dall’altra i Paesi Med, con la presenza tuttavia della Francia che si aggiunge all’Italia, alla Spagna ed alla Grecia.

L’oggetto del contendere è sempre il solito: stabilità finanziaria vs mancata crescita. Target minimi annuali, come ridurre il rapporto debito/Pil almeno dell’1 per cento all’anno vs. percorsi di rientro personalizzati e negoziati bilateralmente tra le diverse Capitali con Bruxelles. Più sfumata la posizione italiana: una “golden rule” seppure limitata alla transizione ambientale energetica e digitale. Una variante semplicemente domestica, rispetto all’architettura di cui si è detto in precedenza.

Difficile prevedere quale sarà il punto di caduta finale. Una cosa, tuttavia, è certa. Non si può pensare di governare una riconversione produttiva, come quella ipotizzata dalla stessa Commissione europea, che prevede cambiamenti epocali ed al tempo stesso pensare che tutto ciò possa avvenire senza sborsare il becco di un quattrino. Anzi: esaltando una politica della lesina, come ai tempi di Quintino Sella. Un semplice miraggio destinato, purtroppo, a dar luogo ad un triste risveglio.

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