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La Cina potrebbe vietare l’export di tecnologie e know how per la raffinazione di terre rare e manifattura dei magneti permanenti di terre rare (Ree), asset industriali cruciali per la fabbricazione di motori elettrici e turbine eoliche, oltre all’impiego in vari sistemi militari.

La misura, che segue l’aggiornamento della lista di materiali ritenuti “strategici” per Pechino, sembra rievocare quanto già avvenuto più di un decennio fa, quando alla luce di una crisi diplomatica con il Giappone sulle isole contese di Senkaku/Diaoyu la Repubblica Popolare Cinese rispose vietando le esportazioni dei materiali strategici verso le industrie giapponesi.

Si tratta di un’escalation nell’attuale contesto internazionale, che vede Stati Uniti e Cina – e non ultimo gli alleati di Washington – sempre più diretti verso un confronto tecnologico aspro. La decisione di Pechino, che non giunge inaspettata, si configurerebbe, secondo Nikkei, come una risposta diretta alle restrizioni imposte dagli Usa sulla tecnologia per il design e la manifattura dei semiconduttori avanzati.

Tuttavia, la decisione di limitare l’export di tecnologia critica per le industrie non-cinesi è una chiara dimostrazione della presa dominante di Pechino sulla filiera e della sua volontà (geo)politica di utilizzarla come “arma” di ricatto, considerando che le esportazioni di terre rare e concentrati dalla Cina è rappresentato da volumi ridotti e a basso valor aggiunto. Alla luce, anche, delle iniziative pubblico-private che l’Occidente ha messo in piedi, negli ultimi anni, per provare a svincolarsi dalla dipendenza da Pechino in un contesto di tensioni geopolitiche crescenti.

Il mercato dei magneti permanenti (NdFeb), fabbricati grazie ad una lega metallica di ferro, boro e composti di terre rare come neodimio, praseodimio e disprosio, sarà in forte crescita nei prossimi anni sulla scia della decarbonizzazione ed elettrificazione della flotta automotive e della progressiva installazione di parchi eolici offshore. Non solo: altri settori industriali, come la robotica, l’elettronica di consumo (smartphone), i condizionatori e i droni saranno trainanti seppur in volumi ridotti rispetto alle tecnologie per l’energia rinnovabile.

Il rischio che questa supply chain – attualmente dominata dalla Cina dalle miniere ai magneti – venisse utilizzata come arma ritorsiva nei confronti degli Stati Uniti e l’esistente dipendenza di Giappone, Corea del Sud ha reso la diversificazione dell’offerta un imperativo di sicurezza. Solo nel 2020 la Cina contava per l’80% della produzione di neodimio e per il 90% delle importazioni di magneti di Seoul, le cui industrie (principalmente automotive) sono particolarmente esposte. Australia e in parte Vietnam rappresentano possibili alternative nel medio-lungo periodo: il Giappone, finanziando tramite il Jogmec il progetto estrattivo dell’azienda Lynas Corporation nel 2016, sull’orlo della bancarotta, si è garantito un’offerta di ossidi di terre rare alternativa, riducendo la dipendenza dalla Cina dal 90% al 58% secondo i dati Un Comtrade.

Nel caso del settore privato, per esempio, Hyundai Motor Group ha firmato a novembre nel 2022 un accordo con l’azienda mineraria australiana Arafura, per la fornitura di 1.500 tonnellate di ossidi di terre rare l’anno. Allo stato attuale, ci sono alcuni produttori di magneti in Giappone, come Tdk Corp e Shin-Etsu Chemical Co (attore, peraltro, importante nella fornitura di prodotti chimici per la fabbricazione di semiconduttorui) che rappresentano circa il 15% del mercato. Una fetta risicata rispetto ai volumi di produzione cinesi, le cui industrie avranno una capacità di circa 400.000 tonnellate entro il 2025. Oggi, il 92% dei magneti prodotti a livello globale è cinese. Da un’altra prospettiva, un solo produttore cinese rappresenta circa il 95% del mercato dei magneti utilizzati nei motori dei veicoli elettrici (Ev). Tuttavia, come ha di recente annunciato Tesla, la soluzione potrebbe essere quella di utilizzare tecnologie alternative o quanto meno ridurre il consumo di terre rare, seppur l’impatto sul mercato potrebbe essere ridotto. Resta il fatto che costruire un’industria alternativa alla Cina è molto complesso, soprattutto se visto in un’ottica di competizione con i vantaggi di scala e la struttura dei costi delle materie prime attualmente in Cina.

Gli Stati Uniti sono tra i paesi più esposti, con una percentuale di importazione di metalli di terre rare dalla Cina che tra il 2013 e il 2020 si è attestata sempre tra il 78 e l’80%. Al momento, non esiste in Nord America una filiera integrata che possa fare da cuscinetto nell’eventualità che anche i magneti al samario (RE) cobalto o di terre rare – utilizzati negli F-35 e nei missili teleguidati di ultima generazione – possano essere facilmente acquisiti. Il Pentagono, oltre agli investimenti su progetti domestici, e al divieto dei contractors militari di rifornirsi dai produttori cinesi, ha preso in considerazione anche lo stoccaggio, seppur complesso. Nel dicembre 2021, General Motors e il produttore tedesco Vacuumschmelze hanno siglato una partnership per investire in nuove attività produttive, contando sul feedstock della compagnia MP Materials, attualmente unica attività estrattiva sul suolo americano. Il Dipartimento del Commercio, che ha dichiarato la dipendenza dalla Cina un rischio per la sicurezza nazionale, tuttavia stima che, se anche tutti i progetti in rampa di lancio dovessero arrivare sul mercato, questi potrebbero soddisfare solo il 51% della domanda Usa di NdFeb, dominata peraltro dai settori civili.

In misura molto minore, anche l’Unione Europea – la cui leadership europea negli scorsi giorni ha riavviato il dialogo con Pechino – è non poco interessata dalla misura. La recente pubblicazione del Critical Raw Materials Act in Ue punta a incentivare l’apertura di nuovi siti estrattivi nel continente – come il progetto svedese di Nora Karr – e a rafforzare la resilienza della filiera con capacità di raffinazione (Pechino controlla oltre l’85% del mercato) e di metallizzazione degli ossidi di terre rare. Step decisivi per la fabbricazione dei magneti, ma con esternalità negative per comunità locali e l’ambiente circostante considerato l’utilizzo di solventi chimici. Senza tecnologie e know-how, qualunque sforzo per raggiungere maggior autonomia dalla filiera cinese sarà costoso e molto prolungato nel tempo. L’obiettivo della Commissione è di produrre il 20% della domanda europea entro il 2030. Attualmente, solo la tedesca Vacuumschmelze possiede capacità produttive, molte delle quali localizzate proprio in Cina, mentre è in corso di sviluppo l’integrazione della filiera up-midstream tra tre progetti industriali tra Canada ed Estonia.

Non è comunque del tutto scontato che l’offensiva della Cina, con la progressiva weaponization della filiera (vietando gli investimenti esteri, restringendo il flusso delle tecnologie di raffinazione/separazione, protette da brevetti, e manipolando la struttura di tasse e incentivi domestici) possa avere un netto guadagno strategico nel lungo termine. Se l’obiettivo è quello di negare – al pari di quanto fatto da USA e alleati nell’industria dei semiconduttori – all’Occidente di sviluppare un’industria delle terre rare alternativa, questo potrebbe avere un effetto boomerang sulla sostenibilità (ambientale e finanziaria) dell’industria domestica in assenza di nuovi progetti (minerari e non solo) all’estero.

In conclusione, la specularità delle ritorsioni politiche con cui la Cina e gli Stati Uniti stanno ricorrendo per infliggere all’avversario impatti severi nello sviluppo dei due settori industriali in cui rispettivamente dominano (terre rare e semiconduttori), facendo leva sul dominio di una parte della supply chain (design, Eda e Sme per i chip, processazione e metallizzazione per le terre rare) rende l’idea di quanto la “guerra” tecnologica sia destinata ad una progressiva escalation, con evidenti ricadute economiche e politiche sugli altri attori in campo.

Gli occhi sono puntati sui prezzi delle terre rare, i cui volumi sono tuttavia commerciati e scambiati al di fuori dei circuiti formali. Nel 2010, gli indici dei prezzi di disprosio e neodimio aumentarono rispettivamente del 4000 e 1400%, salvo poi crollare nel giro di un anno, mettendo a dura prova i progetti in via di sviluppo fuori dalla Cina.

Terre rare, le conseguenze in Europa della ritorsione cinese

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