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La narrativa comune sull’Artico come teatro di guerra evoca immagini di ghiaccio, neve e temperature proibitive. Ma per gli addetti ai lavori ed i comandanti militari la stagione più insidiosa non è l’inverno, ma il “quinto tempo”, l’autunno e la primavera, quando il disgelo trasforma il terreno in un pantano impraticabile e gli insetti si sommano alle insidie ambientali. Il dato scientifico è inequivocabile: per volume resta appena un quarto dei ghiacci artici originari. La Groenlandia ha perso dal 1992 al 2018 oltre 4.000 gigatonnellate di ghiaccio, l’equivalente di un chilometro d’acqua sopra Miami. Un’immagine più eloquente di qualsiasi tabella scientifica.

Più della climatologia, conta la geografia del potere. Oltre della metà delle terre a nord del Circolo Polare ricade sotto la giurisdizione russa, dalla quale Vladimir Putin alimenta la sua macchina bellica con i proventi di gas, petrolio e minerali estratti nel Grande Nord. Una ricchezza che si accompagna a un’eredità tossica, composta da oleodotti che soffocano i pascoli dei pastori sami, scorie industriali dei tempi sovietici che continuano a contaminare fiumi e cieli artici. Ed è per questo che Stoccolma, da anni, addestra gli alleati Nato a combattere non solo contro un potenziale nemico, ma contro la natura stessa.

Il nuovo fronte settentrionale

Il progressivo allargamento della Nato verso nord, culminato con l’adesione della Finlandia e la partnership strategica con la Svezia, ha ridefinito la geografia militare europea. L’Artico non è più una periferia, ma un fronte sensibile. A est, Mosca mantiene basi operative a Severomorsk, Alakurtti e Pechenga, presidiate da reparti abituati a vivere quotidianamente in condizioni estreme. A ovest, Washington e le capitali europee corrono per colmare un gap capacitivo, operativo e di esperienza.

L’equazione riflette che se il Cremlino dovesse decidere di aprire un nuovo fronte, i rinforzi Nato (con un netto svantaggio in termini di navi rompighiaccio) arriverebbero dalla Germania e dalla Polonia passando per la Svezia. Ma i soldati occidentali dovrebbero affrontare ambienti che non hanno mai conosciuto e che fa del gelo il suo carattere distintivo. Non è un dettaglio. È un fattore operativo che rallenta le manovre, canalizza i movimenti su pochi sentieri obbligati e aumenta la prevedibilità delle truppe. Senza dimenticare la dimensione sanitaria: scarponi costantemente bagnati portano a casi di trench foot e congelamento; il vento e la pioggia a 10 gradi possono causare ipotermia più rapidamente di un gelo secco a –20. Il tempo per acclimatarsi, necessario e stimato intorno al mese, non esisterebbe in caso di offensiva rapida.

L’arte della deterrenza (e della sopravvivenza)

Il centro di addestramento subartico di Lomben, a nord del Circolo Polare, rappresenta per questo un laboratorio strategico. Qui la dimensione bellica assume una forte cifra ambientale. Avversari militari, sì. Ma anche paludi che inghiottono mezzi corazzati, piogge che trasformano muschi e licheni in trappole, e una miriade di insetti che contrasta l’agilità operativa delle truppe.

Il training svedese ha ben chiaro il concetto che per combattere e per esercitare deterrenza bisogna esserci, dunque sopravvivere e la dottrina statunitense, aggiornata nel 2025 con il primo manuale artico da oltre mezzo secolo, prende atto che il clima è ormai un attore strategico tanto quanto il nemico.

Arctic stress test?

L’Artico non è più solamente la frontiera del ghiaccio. È uno spazio fluido. Mosca lo sfrutta per finanziare la guerra, Pechino intravede una via d’uscita marittima, l’Occidente oscilla tra la ricerca scientifica e la ricerca di una deterrenza. Nel Grande Nord la vera minaccia è, dunque, il disgelo. Paludi, piogge e sciami d’insetti trasformano la Lapponia in un incubo operativo. Così la Svezia prepara gli alleati ad affrontare il fronte artico in ogni stagione, togliendo a Mosca la possibilità di scegliere il “momento giusto” per colpire. Ma le esercitazioni devono misurarsi con sensibilità politiche e sociali interne. Nel nord della Svezia, ad esempio, le esercitazioni vengono regolarmente sospese per non intralciare la vita e la mobilità delle comunità Sami, custodi di un equilibrio fragile con il territorio. È un segnale che la guerra moderna, anche alle latitudini più remote, non può prescindere dalla dimensione civile e culturale. Prepararsi a combattere, e resistere,  in ogni stagione significa che non ci sarà “stagione favorevole” per un’aggressione russa. Significa farsi trovare pronti, non impreparati o in ritardo. Niente scacco matto nello scacchiere artico.

 

 

La Svezia addestra le truppe Nato ad operare nel Grande Nord

A Lomben i soldati occidentali si addestrano per avversari militari e ambientali. Una preparazione che unisce logistica, resilienza e sensibilità civile, per togliere a Mosca il vantaggio di poter potenzialmente scegliere il momento giusto per colpire

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