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Le crisi bancarie che, al di qua ed al di là dell’Atlantico, stanno preoccupando i mercati e l’establishment politico hanno cause, ragioni e storie diverse. Ma non hanno anche una radice di carattere sistemica? Questo è l’interrogativo che preoccupa più di tutti. Perché se fosse così, allora ai primi episodi se ne potrebbero aggiungere altri, in un effetto domino, al momento insondabile.

Le diversità sono state evidenti. Svb (Silicon Valley Bank) è precipitata in meno di 40 ore. L’8 marzo aveva annunciato un aumento di capitale per 2 miliardi di dollari, due giorni dopo era iniziata la grande fuga dei depositi: 43 miliardi di dollari defluiti dalle casse della banca, sull’onda di un semplice passa parola, seppure elettronico, tra i correntisti. La successiva tardiva richiesta di capitale doveva servire a ripianare le perdite relative.

Il passivo della banca era dato dagli eccessi di liquidità da parte delle centinaia di imprese, che lavorano nella Bay Area californiana. Le quali, in attesa di realizzare i rispettivi investimenti, depositavano presso la banca le loro eccedenze finanziarie. Depositi a vista, nel lessico bancario, disponibili a semplice richiesta. Destinati a spiccare il volo alla minima incertezza. Per blindarli la stessa banca avrebbe dovuto dotarsi di un’appropriata Lcr (Liquidity coverage ratio), ossia di quella specifica copertura che l’EBA (l’Autorità Bancaria Europea) impone a tutti gli Istituti di credito operanti nel territorio dell’Unione.

In assenza di tali obblighi, il management di Svb si era, invece, ritenuto libero di poter correre la cavallina. Alla ricerca dei migliori margini di profitto, negli anni della grande liquidità bancaria dovuta ai bassi tessi d’interesse, aveva investito quote crescenti delle proprie disponibilità liquide in titoli di stato del Tesoro a medio termine, che garantivano un rendimento maggiore. Tra le passività a breve (i conti correnti dei depositanti) e gli investimenti finanziari a medio termine si era pertanto creato uno scarto, un possibile corto circuito, destinato ad innescarsi, nell’eventualità in cui la Fed avesse aumentato i tassi d’interesse. In quel caso, infatti, la manovra avrebbe comportato una forte perdite di capitale nei titoli, acquistati negli anni precedenti.

Perdite da coprire, se nel frattempo i depositanti non fossero fuggiti. La vicenda di Credit Suisse, sull’altra sponda dell’Atlantico, è ben diversa. Più una lunga storia di bucanieri che non di banchieri: forse a causa di quelle vele al vento, che rappresentano il logo della Banca, quasi ad indicare la rotta di una nave corsara. E, in effetti, nei 167 anni della sua vita si è fatta mancare ben poco. Soprattutto nel corso del “secolo breve”: a partire dai finanziamenti concessi alla Repubblica di Weimar, quindi, il coinvolgimento con le vicende del nazismo, che si risolsero all’indomani del dopoguerra.

Poi nel 1977 lo scandalo di Chiasso, che travolse la filiale della Banca nel territorio italiano. Quindi il tentativo di assumere una posizione di rilievo sul mercato finanziario americano, grazie ad una serie di joint venture con altrettanti Istituti finanziari. Senza considerare l’avventura russa (tra le prime banche europee a trasferirsi a Mosca) che si risolse in un mezzo disastro, a seguito della crisi del 2012.
Ma è dalla crisi del 2008 che la banca ha fatto fatica a riprendersi. Allora le perdite furono pari ad 8 miliardi di euro. Che, per la verità, la banca, a differenza dell’UBS, ha assorbito senza richiedere alcun intervento pubblico.

Nel 2016, tuttavia, era stata costretta a pagare al governo di Washington una multa pari a 5,3 milioni di dollari per il ruolo avuto dalle sue filiali americane nella crisi dei sub-prime. Due anni dopo, altra multa per fatti di corruzione (assunzione di parenti di famiglie altolocate) in Cina. Quindi, nel 2020, l’accusa di riciclaggio relativo ad un traffico di droga con la Bulgaria. Altra ammenda: per un totale nel periodo 2012 -2020 pari a 12 miliardi di franchi svizzeri. Vero e proprio record. Senza contare, infine l’ultimo scandalo: l’inchiesta giornalistica del 2022 che aveva portato ad evidenziare 18 mila conti della banca intestati ad evasori fiscali, malavitosi, ricattatori ed altri clienti ben poco raccomandabili.

Ma non era stata certo quest’ultima denuncia (pecunia non olet) la causa della crisi. Bensì le perdite accumulate che, in soli due anni, avevano raggiunto quasi i 9 miliardi di euro. E che, dall’ottobre del 2022, avevano dato il via a un exit silenzioso, ma continuo, da parte dei depositanti. Fino a divenire una vera e propria emorragia nei primi mesi del 2023. Ne era seguita una richiesta pressante di capitali, cui aveva fatto seguito il rifiuto da parte dei principali soci (Saudi National Bank) di poter intervenire. L’eventuale nuovo investimento avrebbe fatto salire la partecipazione saudita oltre il 10 per cento del capitale, contravvenendo alle regole prudenziali di gestione di quella banca. Quindi crisi inevitabile, conclusasi com’è noto con l’acquisto della banca (3 miliardi di franchi) da parte di UBS, ma solo dopo l’azzeramento di 16 miliardi di franchi svizzeri di obbligazioni Additional Tier 1 (AT1).

Scelta per la verità singolare. Benché quelle obbligazioni non offrano all’investitore alcuna garanzia, compensandolo, tuttavia con un rendimento (finché dura) ben più elevato, generalmente nel caso di risoluzione di una banca, i principali agnelli sacrificali sono gli azionisti e subito dopo i possessori di obbligazioni. Questa perversa gerarchia (un omaggio ai sauditi?) è stata invece rovesciata. Ma così facendo si è creato un pericoloso precedente, anche se solo circoscritto (almeno per il momento) alla legislazione elvetica, che è stata, tuttavia, cambiata dans espace d’un matin.

Precedente che ha fatto balenare il rischio di un possibile contagio nei confronti di Deutsche Bank: colpevole di aver annunciato il rimborso anticipato di un bond subordinato Tier 2 da 1,5 miliardi di dollari. Paradossi di un mercato più che stressato. Ma anche consapevole delle reali debolezze della banca tedesca. Di cui si dice tutto il male possibile (in pancia ancora troppi titoli tossici) fin dal 2019, dopo il fallimento della ventilata fusione con Commerzbank.

Fin qui la cronaca, se non la storia. Ma l’elemento che unisce situazioni così apparentemente diverse è il mutato sentiment del mercato. A sua volta riflesso delle politiche restrittive delle diverse Banche centrali. Le quali, chi più chi meno, sono state costrette ad aumentare i tassi di interesse, per drenare liquidità. E quindi contenere l’inflazione. Il maggior costo del denaro ha prodotto un aumento del rischio e quindi una maggiore prudenza. Con i singoli operatori pronti a tirare i remi in barca al minimo stormir di fronte, per evitare di rimanere con il cerino in mano. Ecco allora un primo elemento di carattere sistemico.

Crisi anche lontane alimentano onde lunghe, che possono investire mondi distanti. Costringendo le Banche centrali a cambiamenti delle precedenti priorità, onde evitare l’estensione di possibili contagi. Com’è noto, la Fed americana, qualche giorno fa, ha nuovamente aumentato i suoi tassi d’interesse, ma solo dello 0,25 per cento. Contro lo 0,5 originariamente previsto. È stata costretta a questo ripensamento, avendo dovuto garantire la liquidità necessaria per spegnere l’incendio della SVB, intervenendo con un fondo (Bank Term Funding Program) di 25 miliardi di dollari. Le banche vi potranno far ricorso per ottenere i finanziamenti necessari a copertura dei T-bond posseduti, che saranno utilizzati, come collaterale, ma al valore nominale e non a quello di mercato. Per garantire loro la necessaria liquidità fino alla scadenza del titolo. Al tempo stesso la garanzia sui depositi sarà estesa anche per importi superiori ai 250 mila dollari, ch’era il limite previsto dalla legislazione.

In Europa, invece, la politica monetaria non è cambiata. La Bce ha, aumentato, come previsto, dello 0,5 per cento i tassi di interesse. La Banca centrale svizzera ha fatto altrettanto. Mentre la crisi di Credit Suisse, come si è visto, è stata affrontata con gli strumenti del mercato. Se l’incendio risulterà domato, nulla da aggiungere. Ma se il fuoco dovesse covare sotto la cenere, sarà opportuno, anche in questo caso, ripensare alla politica monetaria fin qui seguita e procedere con maggiore cautela. Come del resto fa intuire lo stesso dibattito all’interno del board della Bce.

Legami, quindi, che rendono evidenti i condizionamenti reciproci tra politica monetaria ed assetti congiunturali. In passato si diceva che quanto la politica monetaria raggiunge un punto limite, nella riduzione dei tassi d’interesse, l’ulteriore intervento, nella stessa direzione, non produce più alcun effetto positivo. Il ragionamento è perfettamente reversibile. La stretta monetaria può risultare efficace solo fino al punto in cui non innesta processi di crisi collaterali ed imprevedibili. Che, alla fine, ne bloccano l’ulteriore sviluppo, rendendo indispensabile una rapida retromarcia. Da qui lo svilupparsi di una contraddizione su cui è necessario riflettere ulteriormente, nella ricerca di quegli strumenti, tra loro diversificati, in grado di ridurre al minimo le interferenze non volute.

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