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Gli eventi catastrofici naturali che stiamo osservando in questi giorni in Italia, quali le piogge torrenziali e gli allagamenti, dopo un lungo periodo di eccezionale siccità, sollevano preoccupazioni sull’insufficiente attenzione dedicata al cosiddetto “debito climatico”. Le variazioni drammatiche del clima e gli eventi estremi ad esse associati possono essere considerati come un richiamo, e, allo stesso tempo, una sorta di anticipo forzato di pagamento per il nostro “debito climatico”, una obbligazione a riparare almeno alcuni dei guasti del pianeta causati dal nostro sviluppo economico e a mitigarne le conseguenze.

Le piogge torrenziali, gli allagamenti, le tempeste sempre più violente, le siccità prolungate e le altre manifestazioni estreme del clima che interessano sempre di più il resto del mondo e anche il nostro Paese, sono un indice degli effetti del riscaldamento globale causato dalle attività umane. Tuttavia, nonostante l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico, l’attenzione della politica è catturata da altre questioni, e, come testimonia il dibattito sulla riforma del patto di stabilità in Europa e l’impasse parlamentare in Usa, soprattutto da quella del debito pubblico.

Questo può essere un problema significativo per l’economia, ma la sua gestione non deve distogliere l’attenzione dalle sfide a lungo termine, tra cui il cambiamento climatico, con effetti potenzialmente dirompenti come minaccia globale per l’umanità. Sul fronte della finanza pubblica, il cambiamento climatico gioca una parte sempre più importante nel determinare l’onere effettivo che gli Stati devono affrontare, e il suo impatto sul debito sovrano appare crescente. Questo impatto può variare da paese a paese in base a fattori quali la vulnerabilità climatica, l’esposizione economica e la capacità di adattamento e mitigazione.

Una gestione attenta del debito climatico appare comunque essenziale per una programmazione prudente delle finanze pubbliche, attraverso politiche di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico e un’allocazione efficace delle risorse per la transizione verso un’economia sostenibile. Ma che cos’è esattamente il debito climatico? Questo concetto, che ha aspetti economici, finanziari e contabili si riferisce a tre possibili “creditori”: i paesi in via di sviluppo, le generazioni future e l’ambiente.

I Paesi in via di sviluppo sono considerati creditori perché spesso sono i più colpiti dagli impatti del cambiamento climatico nonostante abbiano contribuito in misura minore alle emissioni storiche di gas serra. Questi paesi spesso hanno meno risorse finanziarie, capacità di adattamento e tecnologie per affrontare gli effetti negativi del cambiamento climatico, quali l’innalzamento del livello del mare, le siccità, le inondazioni e gli eventi metereologici estremi.

Di conseguenza, il debito climatico si riferisce all’obbligo morale (in parte riconosciuto anche in accordi internazionali) dei paesi più sviluppati di fornire sostegno finanziario, tecnico e tecnologico ai paesi in via di sviluppo per affrontare il cambiamento climatico e mitigare i suoi impatti. Il debito climatico si riferisce anche alle generazioni future che subiranno gli impatti causati dalle emissioni di gas serra accumulate e attuali. Le azioni e le decisioni prese oggi riguardo alle emissioni, all’adattamento e alla mitigazione avranno conseguenze dirette sulla qualità della vita e sulle opportunità delle generazioni future.

Pertanto, il debito climatico implica la responsabilità di agire in modo sostenibile per mitigare i cambiamenti climatici e garantire un ambiente vivibile per le generazioni a venire. Infine, il debito climatico si riferisce all’obbligo di preservare e proteggere l’ambiente nella sua accezione più ampia di sistema ecologico planetario. Il cambiamento climatico ha infatti un impatto significativo sugli ecosistemi, la biodiversità e gli equilibri naturali del pianeta. Le emissioni di gas serra e altre attività umane stanno causando danni irreversibili all’ambiente, come la perdita di habitat, l’acidificazione degli oceani e la distruzione degli ecosistemi fragili. Il debito climatico configura quindi una obbligazione nei confronti dell’ambiente ad adottare pratiche sostenibili che limitino ulteriori danni e permettano il recupero degli ecosistemi compromessi.

Benché non vi sia accordo su una metodologia unica di calcolo, pur nella profonda incertezza che caratterizza questi problemi, stime ragionevoli del debito climatico possono essere sviluppate. Le stime più attendibili sono basate su modelli economico- matematici che simulano scenari alternativi sulla base degli impegni nazionali (i cosiddetti “Nationally Determined Contributions”) per la mitigazione e l’adattamento climatico presi da più Paesi in varie sedi internazionali, a cominciare dagli accordi di Parigi del 2015. Queste stime mettono in rilievo come i cambiamenti meteorologici in atto e il deterioramento progressivo dell’ambiente facciano sì che il debito climatico sia una parte sempre più rilevante delle obbligazioni effettive dei paesi e dei governi.

Allo stesso tempo esse suggeriscono come la eccessiva attenzione alla parte contabile degli equilibri di finanza pubblica che non ne consideri la interdipendenza con il sottostante debito climatico può essere fuorviante e, in ultima analisi, controproducente. Per esempio, studi recenti stimano il valore del debito climatico come pari a circa la metà del valore del debito pubblico per gli Stati membri dell’UE e in proporzione crescente se gli sforzi per contenere i deficit di bilancio non si accompagnano ad investimenti adeguati di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.

L’impatto del debito climatico sul debito sovrano può variare da paese a paese in base a fattori come la vulnerabilità climatica, l’esposizione economica e la capacità di adattamento e mitigazione. Affrontarne le sfide richiede una gestione prudente delle finanze pubbliche, ma anche, allo stesso tempo, adeguate politiche di adattamento al cambiamento climatico e un’allocazione efficace delle risorse per la transizione verso un’economia sostenibile. Il valore del debito sovrano è infatti legato a filo doppio con il debito climatico, anche se ciò può non essere evidente nelle forme contabili che guidano la gestione tradizionale del debito pubblico.

Le interdipendenze principali, già ora ben presenti nelle metodologie di valutazione delle agenzie di rating, implicano che una gestione restrittiva dei bilanci pubblici può essere un boomerang e paradossalmente causare aumenti del servizio del debito, impatti negativi sulla sua sostenibilità e riduzione della capacità fiscale. In particolare, la riduzione della spesa pubblica per contenere il deficit di bilancio può comportare minori investimenti in infrastrutture sostenibili, energie rinnovabili e tecnologie pulite. Questa riduzione a sua volta può inoltre essere interpretata come una rinuncia ad affrontare le sfide del cambiamento climatico, e portare a una diminuzione della fiducia dei mercati finanziari e dei creditori, creando instabilità finanziaria e aumentando il rischio di crisi del debito sovrano non solo per il paese in questione, ma anche per i suoi partner finanziari e commerciali.

In sintesi, per gestire il debito climatico in modo efficace, è necessario integrare l’agenda climatica con le politiche di finanza pubblica e di bilancio. Questo significa sviluppare politiche di bilancio sostenibili che prendano in considerazione gli impatti del cambiamento climatico, valutino i rischi finanziari associati e incorporino strategie di mitigazione e adattamento nelle decisioni di spesa pubblica. In Europa, la revisione del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) rischia di essere inefficace o addirittura controproducente se non accompagnata dalla istituzione di una capacità di investimento con un forte orientamento al clima e all’energia.

La lotta contro i cambiamenti climatici è una priorità globale e richiede investimenti significativi nella transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Il piano REPowerEU sta già mobilitando quasi 300 miliardi di euro, di cui circa 72 miliardi sotto forma di sovvenzioni e circa 225 miliardi di euro di prestiti. Ma questa dotazione non è sufficiente, a fronte di un debito climatico stimato a più del 30% del PIL europeo. Un fondo di investimenti sotto il controllo della Commissione, collegato alle nuove norme del PSC e dedicato in misura significativa al clima e all’energia, consentirebbe di perseguire una politica comunitaria di transizione energetica, promuovendo al contempo la integrazione tra l’agenda climatica e le politiche di finanza pubblica e di bilancio di livello europeo.

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