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Con la fine dell’estate si entra in una nuova fase della vita politica italiana e non solo. Alle prossime elezioni europee mancano ancora nove mesi, ma è come se fossero domani. Troppo importante la posta in gioco, ma sopratutto troppo incerta la situazione non solo interna. I cambiamenti che bussano alla porta non sono solo quelli nazionali. Anzi da questo punto di vista, considerata la crisi in cui versa l’opposizione, la maggioranza, se non fosse per le proprie fibrillazioni interne, potrebbe andar tranquilla. È invece la componente estera che rischia di sbilanciare l’intero assetto complessivo.

Le elezioni europee ci saranno a giugno. Quelle americane seguiranno dopo 5 mesi. Non è la prima volta che si verifica questa coincidenza di date. Anzi il fenomeno si rinnova con una cadenza ventennale. Era avvenuto nel 1984, quindi nel 2004, sarà così anche nel 2024. Ed infine, se Dio vorrà, ritornerà nel 2044, se nel frattempo qualche cataclisma, politico o ambientale, non avrà deviato il corso della storia più recente. Un simile ingorgo è destinato ad avere una qualche conseguenza politica? Questo è l’interrogativo che preoccupa alcuni e fa sperare altri.

Nel 1984, le elezioni europee avvennero nel segno di Ronald Reagan. Era infatti scontato, come poi si verificò, che il presidente uscente avrebbe vinto, a mani basse, contro il candidato democratico: Walter Mondale, una faccia da bravo ragazzo e poco di più. Quest’ultimo si sarebbe dovuto battere contro colui che aveva inventato, insieme a Thatcher, un nuovo modo di governare: un misto di liberismo e mercatismo. Battaglia impari. Alla fine la differenza, in termini di voti sfiorò il 20 per cento.

Lo sconcerto europeo, rispetto a quelle politiche, era stato vistoso. Negli anni precedenti Stati Uniti e Gran Bretagna avevano contribuito a demolire il credo della sinistra nella potenza dello Stato. Quelle tecniche di governo che risalivano ai tempi di Keynes e Beveridge avevano prodotto tanti piccoli grandi disastri. Occorreva pertanto ridurre il peso di quelle inefficienze, privatizzare le imprese pubbliche, che nel frattempo si erano trasformare in carrozzoni mangia soldi, contenere il potere dei sindacati. E via dicendo. Dando quindi per scontata la rielezione di Reagan, la sinistra si era mobilitata. Interpretando un sentimento diffuso aveva portato al successo il Gruppo Socialista con 130 seggi, davanti al Partito popolare europeo che ne aveva ottenuto solo 110. In Italia quelle elezioni avevano segnato addirittura, caso più unico che raro, il sorpasso del Pci rispetto alla Dc.

Vent’anni dopo (elezioni del 2004), la lettura era risultata meno decifrabile. Pesavano ancora le conseguenze degli attentati alle Torri Gemelle, di New York, che avevano ferito profondamente la società americana. George W. Bush aveva cavalcato quella voglia di vendetta, attaccando a testa bassa. Prima in Afganistan, poi in Iraq, alla ricerca di fantomatiche armi di distruzione di massa. Fino alla cattura e condanna a morte di Saddam Hussein. E la totale destabilizzazione politica di quel quadrante geografico. Ma poco importava, quell’attivismo aveva garantito la sua rielezione alla Presidenza degli Stati Uniti, seppure di misura nei confronti di John Kerry, il candidato democratico.

Il complicarsi della situazione internazionale aveva spinto, comunque, i leader europei a cambiare registro. Le elezioni del 2004 avevano segnato una svolta, ponendo fine alla prassi che, in passato, aveva portato alla nomina del presidente della Commissione sulla base di accordi preconfezionati tra i principali Paesi. Il nuovo presidente sarebbe stato invece legato alla lista che avrebbe vinto le elezioni. Iniziava così il lungo regno di José Barroso, esponente del Pse, ma con un trascorso giovanile marxista-leninista. Niente di più lontano dalla figura di George Bush, e forse per questo destinato a rimanere in carica anche nella successiva tornata elettorale. Fino al 2010.

Altra caratteristica di quella tornata elettorale sia in Europa che in Italia, era stata l’accresciuta frammentazione del quadro politico. Con la comparsa, per la prima volta, di forze euroscettiche. Nel Bel Paese il risultato, per quanto fosse stata incerta la diagnosi, era stato visto come una sconfitta del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e una vittoria della coalizione di centrosinistra, identificata con Romano Prodi, che era stato il presidente uscente della Commissione europea ed era ampiamente atteso come rientrante nella politica interna italiana per le successive elezioni politiche. Come in effetti si verificherà.

Episodi da ricordare, ma, soprattutto, su cui riflettere, per cercare di leggere il futuro prossimo, in cui quella congiuntura astrale è nuovamente destinata ad appalesassi. Allo stato attuale, sono soprattutto le elezioni americane a preoccupare. Troppo diversi i possibili candidati. L’attuale presidente, Joe Biden, in attesa di riconferma, il 20 gennaio del 2025, data del suo eventuale insediamento, avrà 78 anni e 61 giorni. Sarà il più vecchio presidente della storia americana. Il suo probabile avversario, Donald Trump di anni ne avrà 74 e 220 giorni. Comunque vada a finire, quella della Casa Bianca sarà una corsa per vecchi. Se il candidato repubblicano dovesse essere un altro, la differenza d’età sarebbe anche maggiore.

Come reagiranno le forze politiche italiane di fronte a questo scenario? Specie all’interno del centrodestra, non vi sarà qualcuno voglioso di scommettere, nella speranza di modificare, a proprio vantaggio, gli equilibri all’interno della coalizione? Se vorrà giocare questa partita, dovrà agire prima, come avviene in borsa: acquistare o vendere quando gli altri sono ancora fermi, per anticipare il movimento del mercato. Il risultato, comunque vada, sarà una crescita delle fibrillazioni, non certo il prevalere di una logica di coalizione. Tanto più se si guarda agli equilibri europei, in cui tutti i partiti oggi al potere – dai macroniani ai socialdemocratici tedeschi – sono in difficoltà. Insidiati sia a destra che a sinistra. Che a loro volta offrono la sponda per ardite sperimentazioni.

Del resto le prime avvisaglie, come nelle elezioni spagnole, vi sono già state. Le grandi forze tradizionali hanno perso terreno a causa di una crescente frammentazione del corpo elettorale. In cui strati di elettori sempre più numerosi, si rivolgono altrove, rendendo incerto il risultato finale e faticosa la costruzione di una successiva linea di governo. Azzardare previsioni su quel che sarà, è sempre difficile. Soprattutto rischioso. Ma se si deve proprio scommettere, considerando tutte le variabili in gioco (non ultima la guerra in Ucraina e la crisi economica) è difficile fare esercizio di ottimismo. Le previsioni meteorologiche lasciano presagire una tempesta perfetta. Poi, forse, non ci sarà. Ma, nel frattempo, procuriamoci un ombrello.

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