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Sosteneva Alcide De Gasperi (1881-1953) che la politica estera non è un settore della politica, ma è la politica-politica. Quella da cui discende e dipende tutto il resto: la politica interna, la politica economica e via elencando. E, comunque, soltanto nella prima fase della storia repubblicana, la lezione degasperiana ha prevalso e ha fatto scuola senza incontrare ostacoli. Poi, la musica è cambiata. Certo, nell’immediato dopoguerra la contrapposizione ideologica tra Est e Ovest aveva contribuito ad accrescere la supremazia della politica estera. Sta di fatto, però, che, uscito di scena De Gasperi, la politica estera cominciò a perdere il prestigio che la nobilitava, fino a trasformarsi in serva della politica interna o, in alcuni periodi, addirittura in schiava dei giochi e giochetti di partito e di coalizione. Col tempo il ruolo della politica estera divenne così ancillare che persino una dichiarazione sul Vietnam, da parte di un parlamentare, era subordinata a calcoli elettoralistici, a interessate finalità di collegio.

Il conflitto in Ucraina ha ribaltato definitivamente l’agenda delle priorità del Paese, riportando la politica estera al rango che, nel solco della tradizione degasperiana, le spettava: essere l’espressione, la manifestazione più completa della politica-politica. Il che comporta più dolori che onori, più responsabilità che equidistanze, più doveri che piaceri. Comporta innanzitutto il dovere (scomodo) di scegliere, impone la rinuncia a pretendere di essere lasciati in pace, perché questa, per parecchi visi pallidi al potere, resta la soluzione più comoda e conveniente. Che, stringi-stringi, è sinonimo di cinismo allo stato puro.

Un anno fa, la posizione dell’Italia dopo l’aggressione di Vladimir Putin all’Ucraina era chiara come la luce: tutti o quasi a sostegno dell’eroico presidente Volodymyr Zelensky. Non solo la classe politica, non solo il governo guidato da Mario Draghi. Ma tutta l’opinione pubblica italiana era a grande maggioranza dalla parte della popolazione ucraina bombardata e massacrata dalle forze russe.

Un anno dopo, cioè oggi, lo scenario non appare rovesciato, ma di sicuro risulta sensibilmente modificato. Nella rappresentanza parlamentare prende sempre più corpo la linea dell’equidistanza tra Kiev e Mosca, mentre nell’opinione pubblica perde adepti il principio del sostegno assoluto alle ragioni degli aggrediti. I sondaggi sono univoci in proposito: l’Italia è il Paese europeo, in cui è più bassa la percentuale di cittadini schierati con l’Ucraina. Un dato che rende inevitabile questa domanda: è il “pacifismo” della popolazione a sollecitare il “pacifismo” di cospicui reparti della politica, o è il “pacifismo” di questi reparti della politica a solleticare il “pacifismo” di larghi strati dell’opinione pubblica? Qualunque sia la verità, una cosa è certa: i due fenomeni (“pacifismo” dall’alto e “pacifismo” dal basso) si rincorrono a vicenda (ratificati dai sondaggi) e l’Italia, nonostante la scelta limpida, a favore dell’Ucraina, ratificata prima da Draghi e successivamente da Giorgia Meloni, è tornata ad essere raffigurata su molti giornali, nazionali e internazionali, come l’”anello debole” dell’Europa e dell’Occidente, come la nazione cui lo zar russo guarda con maggiore fiducia, nella speranza, per lui, di veder disarticolato il fronte american-europeo che appoggia la resistenza ucraina.

E pensare che le immagini televisive dalla <martoriata Ucraina> (Papa Francesco) non hanno bisogno di voci esplicative. Parlano da sole. Viceversa, non possono esserci riprese televisive sul territorio russo, visto che si combatte solo nei confini ucraini. Un’asimmetria a senso unico che rende poco comprensibile l’atteggiamento ora pilatesco, ora pacifinto, ora anti-occidentale, ora espressamente anti-Zelensky, assunto, in Italia, da consistenti porzioni dell’opinione pubblica e della classe dirigente (di governo e di opposizione). Possibile che neppure i video-reportage dalla guerra riescano a scalfire le certezze, i pregiudizi, i calcoli politici di quanti danno per buone le rimostranze putiniane contro il governo di Kiev? Possibile che neppure le precedenti analoghe testimonianze dalla Cecenia (prova generale del successivo sequel ucraino), teatro una ventina di anni fa di atrocità e distruzioni da parte delle truppe russe, atrocità messe nero su bianco dalla straordinaria Anna Politkovskaja (1958-2006), riescano a fare breccia in quanti, tutto sommato, credono alla buona fede dell’autocrate moscovita? Possibile che neppure il rialzo dei prezzi, neppure l’inflazione da caro-energia provocata da Putin riesca ad aprire gli occhi a un’ingente fascia di consumatori-elettori italiani, quella più attenta alla causa del proprio portafogli? Evidentemente c’è dell’altro. Evidentemente l’anti-americanismo, l’anti-europeismo e l’anti-capitalismo costituiscono, tuttora, in Italia, un orientamento piuttosto diffuso nel sentiment della popolazione italiana e, di conseguenza, anche la classe politica ne resta contagiata e coinvolta, non foss’altro che per prenotare, e intercettare nell’urna elettorale, tutte le pulsioni domestiche ostili all’Occidente.

Il caso Sanremo è risultato rivelatore e istruttivo al riguardo. Stop al videomessaggio letto dal presidente ucraino. Sì a un messaggio letto solo dal presentatore, e per giunta alle due di notte. E Sanremo non è un evento qualsiasi. Il festival di Sanremo è l’Italia vista nel mondo, soprattutto in Russia. Dire no al collegamento diretto con Zelensky significava ridimensionarne la battaglia, svilirne le ragioni.

Ragioni che non sono, e non saranno, solo di Zelensky o dell’Ucraina. Ma dell’intero mondo libero, visto che nel futuro prossimo si prospetta uno scontro planetario tra le democrazie e i dispotismi. L’Ucraina è solo il primo tempo. Il secondo tempo, quasi certamente, si disputerà a, o su, Taiwan. Che, non a caso, la Cina vuole usare, o forse sta già usando, come pedina di scambio con gli americani. Della serie: caro Biden, tu mi chiedi di fermare Putin in Ucraina? Va bene, ma come contropartita io voglio mano libera su Taiwan. Ovvio, l’America sta dicendo e dirà sempre di no, difenderà Taiwan. E allora? Vedremo.

Previsioni e timori. La partita tra democrazie e dittature è destinata a rivelarsi sempre più aspra e pericolosa (innanzitutto per le prime), specie se l’opinione pubblica del mondo libero mostrerà indifferenza per i valori di libertà e predisposizione verso la cultura della resa.

 

 

 

 

La partita tra democrazie e dittature è appena iniziata. Scrive De Tomaso

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