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Il settore farmaceutico si trova oggi al centro di una ridefinizione degli equilibri economici e strategici tra Stati Uniti ed Europa. Al cuore del dibattito, le politiche tariffarie americane, il modello di accesso ai farmaci nel Vecchio continente, e la capacità dei sistemi sanitari (e industriali) di sostenere l’innovazione. Se negli Stati Uniti, il presidente Donald Trump ha temporaneamente sospeso i dazi “reciproci” a favore di un’aliquota generalizzata del 10%, permangono ad ogni modo alcune tariffe settoriali e pare che i prodotti farmaceutici, insieme ai semiconduttori, rischiano con buona probabilità di essere i prossimi a essere colpiti. Sono già in corso le relative indagini del dipartimento del Commercio, un passaggio formale che potrebbe preludere a dazi fino al 25%, in linea con quelli già applicati su acciaio, alluminio e automobili.

L’IMPATTO POTENZIALE DELLE MISURE

Secondo uno studio di Ernst & Young commissionato da Pharmaceutical research and manufacturers of America – l’associazione di categoria statunitense –, le tariffe sui farmaci importati potrebbero comportare un aumento dei costi interni fino a 51 miliardi di dollari annui, con un impatto sui prezzi fino al +12,9%. Gran parte delle importazioni statunitensi di prodotti farmaceutici proviene dall’Europa – in particolare da Irlanda, Germania e Svizzera. Il rischio, secondo le aziende, è che i nuovi dazi possano compromettere la competitività dell’industria statunitense sui mercati internazionali. La questione riguarda anche i principi attivi; oltre l’80% di quelli usati nei farmaci essenziali difatti non è prodotto negli Stati Uniti. L’America, come l’Europa, dipende fortemente da fornitori esteri, in particolare India e Cina, a causa di costi più bassi, sussidi pubblici più generosi e minori oneri regolatori.

GLI INVESTIMENTI IN USA

Intanto, il clima di incertezza sui dazi sta spingendo le big pharma a rafforzare la produzione entro i confini statunitensi. Nelle ultime settimane, in rapida successione, Eli Lilly ha messo sul piatto 27 miliardi di dollari per quattro nuovi impianti, Johnson & Johnson ha alzato la posta a oltre 55 miliardi, Novartis ha annunciato un piano da 23 miliardi per dieci stabilimenti tra ricerca e manifattura, mentre Roche ha lanciato un investimento da 50 miliardi per rafforzare ricerca e produzione sul territorio. In gioco anche la volontà di rendersi interlocutori privilegiati di fronte alla nuova amministrazione che punta a una ridefinizione strategica della catena di approvvigionamento.

L’APPELLO DELLE PHARMA

Parallelamente, dall’altra parte dell’Atlantico, i gruppi farmaceutici europei – tra cui AstraZeneca, Novartis e Sanofi – hanno rivolto un appello alle istituzioni europee affinché si rafforzino gli incentivi agli investimenti in ricerca e produzione nel continente. In particolare, chiedono un ripensamento delle politiche di prezzo sui nuovi farmaci, ritenute troppo restrittive rispetto al contesto americano e cinese. Secondo Pascal Soriot, ceo di AstraZeneca, un incremento delle risorse destinate alla salute è necessario per garantire l’autonomia strategica dell’Europa in un mondo in rapido mutamento. “L’Europa destina una quota significativamente inferiore del proprio Pil ai farmaci innovativi rispetto agli Stati Uniti e, di conseguenza, sta perdendo terreno nell’attrarre investimenti in ricerca, sviluppo e produzione, mettendo a rischio la sua capacità di tutelare la salute dei propri cittadini”, ha affermato in una nota. Non tutti però concordano con questa linea. Richard Saynor, ceo della produttrice di biosimilari Sandoz, ha definito “fallace” la proposta, sostenendo che le distorsioni del mercato americano – e in particolare il ruolo degli intermediari – non giustificano aumenti di prezzo in Europa, indicando l’accesso alle cure come priorità consolidata. Al netto delle diverse posizioni, una cosa è certa, il momento attuale richiede che il Vecchio continente consideri con maggiore attenzione il valore strategico della propria industria.

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