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A partire da Metropolis di Fritz Lang, il film del 1927 di una forza estetica trascinante, incastonato tra l’art decò delle splendide architetture, le atmosfere oniriche e l’elegantissimo robot, l’intero Novecento si è imbattuto nel mito – per metà incubo e per metà utopia felice – dell’intelligenza artificiale.

La Metropolis di Lang, capolavoro espressionista, ci metteva dentro un sinistro presagio che ci dovrebbe inquietare un po’: narrava di una metropoli del futuro, di lì a cent’anni, nel 2026 (la sceneggiatura risale al 1926, appunto), in cui la tecnologia avanzata a livelli stratosferici avrebbe creato disuguaglianze sociali sempre più forti, con una élite fatta di pochi, ricchissimi, abitatori dei grattacieli agli ultimi piani, negli attici lussuosi che danno del tu agli dei, e il popolo dei proletari, tanti, tutti a sudare laggiù nel sottosuolo per portare ricchezza ai padroni, impegnati a sollazzarsi in ogni modo lassù, nei giardini pensili dell’empireo metropolitano.

Se qualcuno pensa che il grande regista tedesco ci aveva preso e sente qualche brivido camminare lungo la spina dorsale, visto che ci siamo quasi al ‘26, stia sereno: è sensazione diffusa. Almeno tra quei cinofili che hanno amato Metropolis. Una sessantina d’anni dopo fotogrammi di Metropolis finirono nel video di Radio Gaga dei Queen (nel 1984), due anni dopo l’uscita di Blade Runner, film di Ridley Scott che riprende il filo distopico di Lang.

Bene, grande cinema a parte, il tema dell’intelligenza artificiale oggi dilaga nel dibattito pubblico perché si è presa parecchio della nostra vita a partire da quello strumentino che portiamo nelle nostre mani, lo smartphone, per farci tutto e molto di più ancora, perché realtà aumentata, app che danno voce ai nostri defunti, che gestiscono i nostri soldi, che si mangiano tutto il nostro tempo e ci offrono la risposta falsa al bisogno vero e quella rapinosa a quello indotto, non sono più “mezzo” ma “fine ultimo”. Che ci interroga anche sulla ricaduta in termini di democrazia sul modo di produrre fonti informative e di somministrarle alla platea dei cittadini affinché possano effettivamente effettuare scelte consapevoli. Quanto egemoni siano questi “mezzi” nel mondo globale lo raccontano i dati stupefacenti sulla loro diffusione anche nei Paesi poveri: il Ghana, con un Pil pro capite di soli 2014 dollari annui, registra la presenza di 138 abbonamenti per telefoni cellulari su cento abitanti, quanto l’Italia, che però ha un Pil di 34.500 per ogni suo abitante.

Ma torniamo all’intelligenza artificiale, ai robot, ai metaversi e a tutte quelle belle cose da nativi digitali che i non nativi – ahinoi -affrontano con ingombranti bagagli di antiche culture, etiche e razionalizzazioni varie.

Il signor Elon Musk, controverso titolare di posizioni apicali nel pantheon degli Over The Top, e cioè i padroni del web e dell’industria digitale, ha lanciato un appello, sottoscritto da intellettuali e ricercatori del Deep Mind, per una moratoria di sei mesi per mettere a punto regole comuni e protezioni dalle conseguenze più deleterie derivanti dall’applicazione della IA, sul rischio che “inondi i nostri canali informativi con propaganda e falsità” e che diventi strumento di disinformazione potentissimo e facilissimo da usare. Si pensi, per stare alle cose di oggi, alla finta foto del papa col piumino bianco che è andata in giro per il mondo con piena plausibilità e si immagini quali possibilità di sviluppo si aprono alla menzogna e alla difficoltà sempre più alta di discernere il vero dal falso. Musk ha ragione, dunque? Sicuramente c’è un problema grande come una casa che riguarda l’etica, perché non tutto quello che è tecnicamente possibile trova rispecchiamento nella morale. Anzi.

Il vero problema, però è “come” etica e diritto possono trovare applicazione in un contesto in cui lo sviluppo tecnologico si autoalimenta con velocità supersoniche. La democrazia, con le sue procedure garantiste, arriverà sempre tardi rispetto alle tecnologie digitali e il suo intervento sarà sempre parziale e insufficiente. Così come rischia d’esserlo il pur coraggioso intervento che l’autorità Garante della privacy italiano ha svolto per bloccare OpenAI, la società che nel 2015 Musk (sempre lui..) e Sam Altman fondarono e che oggi produce ChatGpt, una piattaforma di AI che si propone come “robot scrivente e dialogante”. Il blocco del garante italiano è motivato dalla mancanza di regole sui dati personali a tutela degli utenti. Ma non sembra che il divieto del nostro garante, unico nel mondo occidentale, possa essere così invincibile: per aggirarlo basterebbe eludere gli indirizzi italiani accedendo al Virtual Private Network.

Insomma se il mondo democratico non si organizza in modo adeguato e concorde la battaglia è persa in partenza.

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Etica e diritto come possono trovare applicazione in un contesto in cui lo sviluppo tecnologico si autoalimenta con velocità supersoniche? La democrazia, con le sue procedure garantiste, arriverà sempre tardi rispetto alle tecnologie digitali e il suo intervento sarà sempre parziale e insufficiente. La rubrica di Pino Pisicchio

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