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Come orientarsi e considerare le prospettive future per l’economia dell’Italia nel turbolento contesto internazionale? Incertezza, guerre, penalità demografica, deglobalizzazione, bassi salari, timori per l’andamento dei prezzi delle materie prime energetiche e per le sirene del protezionismo delle politiche commerciali internazionali sono le nubi che coprono la volta celeste della comunità internazionale. La Germania è di nuovo ufficialmente in recessione, il Regno Unito registra stagnazione e pressioni inflazionistiche e gli economisti di Davos elaborano cupe previsioni di instabilità economica e geopolitica.

In questo contesto internazionale, il governo italiano ha ancora recentemente ostentato ottimismo. Perché? Archiviata la legge di bilancio 2025, in attesa che l’impatto della Zes (rifinanziata) e delle prime opere del Pnrr (si spera) possano essere apprezzate, Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, ha espresso una condivisibile soddisfazione per il risultato storico dell’occupazione, a livelli mai così alti (soprattutto quella femminile) e per la riduzione del tasso di disoccupazione. In aggiunta, alcuni indicatori evidenziano un quadro di risultati economici positivi oggettivi per l’Italia che non possono essere contestati: la fiducia degli investitori internazionali, con il record per la richiesta di titoli di Stato e la riduzione dello spread, la crescita del potere d’acquisto delle famiglie, confermata per il settimo trimestre consecutivo (1,6%) e soprattutto la riduzione del deficit delle amministrazioni pubbliche dal 6,3% del prodotto interno lordo del 2023 al 2,3% (uno dei risultati economici più importanti dell’azione del governo). I cittadini apprezzano, l’indice di gradimento di Fratelli d’Italia è in costante ascesa nei sondaggi così come positiva è la reazione delle associazioni di categoria datoriali come Unimpresa, ma anche Confindustria, al netto di rilievi sulla carenza degli investimenti. D’altra parte, le imprese sono sicuramente in difficoltà, come di seguito rappresentato, ma prefigurano ancora nella prima metà del 2025 un’espansione degli investimenti, prevedono di mantenere invariata la forza lavoro, possono avvantaggiarsi di condizioni di accesso al credito non cambiate e di una complessiva liquidità ancora soddisfacente.

Nonostante queste note positive, lontano dalla dialettica politica e dalle strumentalizzazioni ideologiche, si registrano segnali preoccupanti, anche in Italia, rilevati da istituzioni e centri di ricerca pubblici. L’indagine condotta da Banca d’Italia sulle prospettive di occupazione e crescita tra le imprese italiane del settore industriale e dei servizi non finanziari con almeno 50 addetti, le rilevazioni Istat del terzo trimestre 2024 e la relazione annuale Inapp convergono nell’evidenziare criticità (sottolineate anche da Codacons) pur confermando i segnali di vitalità. Lo spettro della desertificazione, la deindustrializzazione a Nord per la crisi dell’automotive, in Toscana per il lusso e la pelletteria, nelle Marche per gli elettrodomestici, insieme alle previsioni di contrazione di altri settori a partire dalla siderurgia, dove la questione dell’Ilva non è stata risolta, alimentano una crisi che potenzialmente può assumere caratteri recessivi generalizzati. Tra i diversi indicatori esplicativi del rallentamento (rilevati dall’Istat nelle note di novembre e dicembre 2024) si devono menzionare: la riduzione dei profitti e degli investimenti dell’industria (-0,3% e -0,4%), la riduzione del tasso di risparmio (-0,8%), l’assenza di una significativa riduzione dei prezzi per i consumatori, l’aumento della pressione fiscale (arrivata al 40,5% con un incremento dello 0,8%).

Questi dati spiegano perché il 30% degli imprenditori intervistati nell’indagine della Banca d’Italia esprimono valutazioni negative sul futuro economico, in aumento rispetto al 21% dell’indagine precedente. L’Inapp constata la riduzione della produzione industriale su base annua (-1,5%) per il ventiduesimo mese consecutivo.

Come si spiega quindi l’ottimismo del governo? Dalla letteratura economica agli esempi empirici più vicini dei governi Berlusconi, l’importanza dell’ottimismo nelle aspettative di comportamento di investitori e consumatori è fondamentale. D’altra parte, la persistenza e l’approfondimento di alcuni pluridecennali problemi strutturali dell’economia italiana, che il governo deve affrontare con risolutezza, spiegano la presenza di indicatori economici divergenti e le preoccupazioni degli imprenditori. La stagnazione della produttività, che ha segnato peggioramenti negli ultimi trimestri (-2,5% nel 2023) e il debito pubblico monstre sono i principali responsabili delle fragilità evidenziate. Secondo l’Istat le statistiche sulla bassa produttività in Italia evidenziano una tendenza piatta o quasi dal 1995 al 2021 senza soluzione di continuità. La Banca d’Italia informa che il debito pubblico ha superato in questi giorni la soglia dei 3000 miliardi, segnando un nuovo record, da leggere in rapporto alla capacità di rimborso più che nel valore nominale gigantesco.

Una prima risposta per sollevare questi macigni che bloccano gli slanci dell’economia italiana è ancora una volta la prescrizione liberale classica di massive iniezioni di libertà economica e concorrenza, che storicamente promuove la produttività, con interventi legislativi non solo mirati (esiste una legge annuale sulla concorrenza) ma soprattutto efficaci e di largo respiro, maggiore attrattività per gli investimenti esteri e conti in ordine, con tagli alla spesa pubblica. Per la sostenibilità del debito, lo Stato deve ritirarsi dai settori dove spende male e non eroga servizi di qualità e sottoporsi a importanti tagli, dando corso alla spending review mai attuata, senza paura di lasciare spazio alle forze del mercato. Si ricordano i moniti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al Forum Ambrosetti 2024 sulla necessità ineludibile di abbattere il debito pubblico e i rilievi del governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, al Meeting di Rimini della scorsa estate sull’ipoteca sul futuro dei giovani rappresentata dal debito pubblico, evidenziando la maggiore incidenza della spesa per interessi sul debito rispetto alla spesa per l’istruzione. A queste sottolineature fa eco la distinzione di Mario Draghi nel rapporto sulla competitività per l’Unione europea tra debito pubblico buono, accompagnato da un piano industriale per rendere autonome le imprese finanziate, e debito cattivo, con cui sono finanziate le imprese a soli fini assistenzialistici e che non ha alcun impatto duraturo sulla crescita.

La manovra di bilancio 2025, nonostante il carattere necessitato e le scelte obbligate a causa dei vincoli del nuovo patto di stabilità e delle poche risorse disponibili, ha avuto il pregio di esprimere una precisa cultura politica che qualifica i provvedimenti, con la scelta netta di concentrare le poche risorse su alcuni punti specifici: il cuneo fiscale, che diventa strutturale, la parziale revisione delle aliquote Irpef e altre misure con meno risorse ma dalla forte connotazione politica (come il bonus bebè, il taglio del bonus ristrutturazione, il taglio all’Ires premiale, la proroga del Fondo di garanzia per le Pmi, la Nuova Sabatini e la rimodulazione degli incentivi per la transizione 5.0). La strada è quella giusta (tranne che per il Ponte sullo Stretto alle condizioni attuali) ma il governo deve allargare l’azione riformatrice all’anima più liberale, per evitare che il pendolo delle oscillazioni tra i rischi del capitalismo della rendita e la ricerca di una ritrovata stabilità nella crescita del libero mercato indugi troppo sulla prima. Un governo con tassi di popolarità crescenti e consolidati come quello guidato da Meloni dovrebbe avere il coraggio delle scelte politiche fondamentali di lungo periodo, spiegate e illustrate ai cittadini.

Sfide economiche e strategie di governo per il 2025. I consigli di Fracchiolla

Nonostante le difficoltà, il governo italiano ha mostrato ottimismo, evidenziando risultati positivi come l’aumento dell’occupazione e la riduzione del tasso di disoccupazione. Ma produttività stagnante e debito pubblico elevato richiedono misure liberali. Il commento del professor Domenico Fracchiolla (Università Mercatorum)

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