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La serie Netflix “The Diplomat” è piena di azione, intrighi, adrenalina e un equilibrio sempre instabile tra reale e irreale. Che un diplomatico di carriera diventi ambasciatore a Londra (o a Roma, o a Parigi) è la cosa più difficile da credere, dato che queste posizioni sono quasi sempre riservate agli amici del presidente degli Stati Uniti e ai finanziatori delle campagne politiche. E anche il fatto che un diplomatico del genere si presenti all’incarico con un jet privato anziché con un aereo di linea è un’idea azzardata e troppo hollywoodiana. Tuttavia, gli intrighi politici e le lotte di potere – che sono numerosi – sono avvincenti e rispecchiano il mondo della diplomazia.

Deborah Cahn, produttrice dello show, è stata lungimirante quando – attenzione, spoiler alert! – ha scelto i russi come nemici e antagonisti. Ha iniziato a lavorare alla serie qualche anno prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Gran parte dell’abilità politica e della spietatezza rispecchiano la fin troppo tragica realtà di oggi.

Un’altra cosa fedele è il rapporto speciale e duraturo tra gli Stati Uniti e il Regno Unito, che però nello show viene messo seriamente alla prova dall’evolversi degli eventi. Sebbene la produzione e gli sceneggiatori si siano presi una certa libertà nel raccontare il funzionamento interno di un’ambasciata, le battaglie burocratiche, come le tensioni tra l’ambasciatore e il capo stazione della CIA e il linguaggio sono molto fedeli. Il personaggio del vice capo missione è il mio preferito. È contemporaneamente il consigliere dell’ambasciatore, la mano invisibile che dirige l’ambasciata e un attore strategico e accorto. Il lavoro del vice capo missione è considerato da molti diplomatici statunitensi il più difficile in assoluto. Io sono stata il vice capo missione a Roma, in un’ambasciata di diverse centinaia di persone, con rappresentanti di dieci diverse agenzie governative degli Stati Uniti, e posso affermare che si tratta di uno dei lavori più impegnativi ma anche più gratificanti.

La produttrice Deborah Cahn e il suo team di sceneggiatori hanno contattato decine di diplomatici statunitensi, in carica ed ex, in particolare donne ambasciatrici (compresa la sottoscritta), per avere il punto di vista degli addetti ai lavori su tutto ciò che riguarda la sfera delle politiche, del protocollo e della politica. Elizabeth Dibble, ex vice capo missione degli Stati Uniti a Roma e a Londra e ora direttore generale della Multinational Force and Observers a Roma, è citata come consulente nei titoli di coda della serie. Abbiamo condiviso le nostre storie sull’essere l’unica donna nella stanza ed essere scambiata per una segretaria; sul non essere prese sul serio per il nostro genere; sul dover sedere su sedie e divani pensati per gli uomini e non riuscire a toccare il pavimento, e sul dover dimostrare più e più volte il nostro valore. Il personaggio di Keri Russell rappresenta il meglio di noi – e a volte anche il peggio di noi.

Un altro aspetto che mi piace particolarmente è il fatto che Winfield House, la residenza degli ambasciatori a Londra, abbia un ruolo primario nella serie. Anche se non è stata utilizzata la casa vera e propria, gli interni riproducono molto di quello che c’è nella residenza. In una scena, la manager della residenza chiede al coniuge dell’ambasciatrice quali capolavori d’arte intenda far arrivare. È frequente, infatti, che gli ambasciatori non di carriera importante grandi opere d’arte o creino qualche altro tipo di lascito alle residenze delle ambasciate. Walter Annenberg, ambasciatore statunitense a Londra sotto il presidente Richard Nixon, ha donato diversi capolavori. Ho prestato servizio a Londra come diplomatico e ora lavoro per l’Annenberg Foundation Trust a Sunnylands, nella tenuta Annenberg in California. Come si intersecano il mio passato e il mio presente!

Netflix ha appena confermato la serie per una seconda stagione. Non vedo l’ora!

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