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La mia recente visita a Kyiv, con una delegazione del Partito Popolare Europeo guidata dal presidente Manfred Weber, mi ha consentito di maturare alcune riflessioni sulla attuale situazione del conflitto.

Sono stato molte volte in Ucraina, da parlamentare e da presidente della Assemblea Parlamentare della Nato, ma ho trovato una realtà profondamente trasformata rispetto a quella che ho a lungo conosciuto e della quale mi onoro di portare l’Ordine al Merito della Repubblica.

Trovarmi a contatto diretto con gli effetti distruttivi della aggressione russa ed ascoltare dalla voce dei protagonisti racconti raccapriccianti è stato profondamente diverso rispetto alla visione a distanza di mille immagini e alla lettura di innumerevoli pagine di cronaca di questa strana e violenta guerra.

L’apparente normalità della vita quotidiana a Kyiv non riesce a nascondere un clima surreale, rivelato dalla presenza, ovunque, di barriere, protezioni e rifugi antiaerei e dal risuonare frequente di sirene di allarme e di cellulari che le ripetono ossessivamente. Come è surreale trovarsi, nel XXI secolo, tra le macerie di quartieri distrutti a Borodyanka e Irpin, oppure davanti alle fosse comuni di Bucha, scenari che pensavamo relegati nella memoria degli anni bui del secolo scorso.

Dal punto di vista del giudizio sull’evoluzione del conflitto, il dato più rilevante è quello relativo alla devastante frattura culturale creatasi tra due popoli, quello ucraino e quello russo, da sempre profondamente legati in un intreccio di lingua, tradizione, religione, storia.

L’opinione pubblica ucraina era, in qualche modo, preparata all’ampliarsi di una guerra che già dal 2014 insanguinava il Donbass, tuttavia pensava che tutto potesse restare dentro i confini di una parvenza ultima di umanità. I commenti raccolti suonano invece perentori e definitivi: “Quando ti ammazzano i bambini o li deportano per ‘rieducarli’ in Russia, tutto cambia”. La scoperta delle fosse comuni di Bucha ha tracciato una linea rossa, oltrepassata la quale non c’è ritorno. “Da quel momento nulla è più come prima, per noi quella gente è diventata nemica per sempre”.

Case, strade, reti elettriche e ponti saranno ricostruiti, gli ucraini lo potranno fare grazie alla loro dignità e alla loro determinazione, con il sostegno della comunità internazionale. Quello che non si ricostruirà sarà il rapporto tra due popoli fratelli: dovranno passare intere generazioni per sperare che le ferite profonde causate da questo sciagurato conflitto si possano rimarginare. Credo che questa sia la responsabilità più grande di Putin di fronte alla storia: aver creato una frattura insanabile tra due popoli fratelli.

C’è un secondo dato che impressiona: ora gli Ucraini vogliono vincere la guerra, sconfiggendo sul campo la Russia. Un sondaggio realizzato a gennaio di quest’anno da Ndi mostra come per il popolo la vittoria significhi riportare i confini del Paese a quelli anteriori al 2014, includendo quindi Donbass e Crimea. Questo obiettivo è condiviso dal 92% della popolazione, solo il 6% è contrario; le percentuali sono perfettamente identiche tra popolazione maschile e femminile e si scostano solo di un punto tra le diverse fasce di età: 18-35, 36-55, over 56. Una unanimità impressionante, giustificata certamente dal fatto che si tratta di una società in guerra, ma che rappresenta per tutti un dato sul quale riflettere.

Non era così, infatti, prima del 24 febbraio dello scorso anno, quando una parte dell’opinione pubblica ucraina era disponibile a cedere su alcuni punti in cambio di una soluzione del conflitto in Donbass. Ma la brutalità immotivata dell’aggressione di Putin ha ottenuto, tra gli altri, il risultato inatteso di compattare un popolo orgoglioso attorno a un’idea per la quale milioni di persone sono disponibili ora a dare la propria vita.

Una terza considerazione che non può non venire in mente è quella sugli indugi, le incertezze e le responsabilità dell’Occidente, che, per paura delle ritorsioni russe o per calcolo di convenienza geopolitica non fermò Putin nel 2008 in Georgia, non fece nulla per disinnescare definitivamente le mine della Transnistria e del Nagorno-Karabakh, accolse in modo troppo remissivo l’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass, lavandosi la coscienza con gli inapplicabili e inapplicati accordi di Minsk. Anche le esitazioni ad accogliere nella Nato i Paesi dei Balcani occidentali, la Georgia e la stessa Ucraina hanno fatto, alla fine, il gioco di Putin.

Ora registriamo l’angoscia della Moldova, che teme di essere la seconda Ucraina. E un Putin sconfitto nel Donbass, potrebbe vendicarsi, sapendo di avere con Chisinau vita assai più facile che con Kyiv.

Vladimir Putin, comunque, è già stato sconfitto, perché si è messo dalla parte sbagliata della storia, ha ottenuto effetti opposti a quelli che si prefiggeva, anzitutto riunificando l’Occidente democratico e rafforzando la Nato e la Ue. Resta da capire cosa succederà dei mille fronti aperti da Mosca in Medio Oriente e in Africa e, soprattutto, fino a quando e fino a che punto il rapporto di “eterna amicizia” con Pechino resisterà, di fronte agli evidenti danni che la Cina sta subendo da questa guerra, forse voluta anche da Xi Jinping per dare una lezione agli americani, ma presto diventata un boomerang.

Da ultimo, a coloro che sostengono che in Ucraina si stia combattendo una guerra per procura mi viene istintivo dire che hanno sostanzialmente ragione, ma che non si tratta di una guerra tra Usa e Cina che utilizza gli altri come servi sciocchi, bensì di un confronto globale destinato probabilmente – se il conflitto perdurasse a lungo – a creare un nuovo ordine mondiale fondato su uno sciagurato bipolarismo tra democrazie e autocrazie.

Speriamo che questo scenario non si realizzi, per il bene dell’umanità: anche per questo serve continuare a sostenere il popolo ucraino.

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