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Come anticipato per primo da questo giornale solo pochi giorni fa, l’Europa è pronta a rendere più difficile la vita alla Cina nel Vecchio continente, imbrigliando gli investimenti che continuano ad arrivare da Oriente. Per farlo, Bruxelles sta pensando a una sorta di golden power formato continentale, per trasformare le scorribande del Dragone, a cominciare da quelle dei suoi unicorni d’eccellenza come Catl e Byd, in qualcosa di più fruttuoso.

La filosofia è quella win-win, vale a dire che si permette di investire solo se anche l’Europa ha da guadagnarci qualcosa. E purtroppo, fin qui, non è stato così. Le grandi aziende cinesi, infatti, nell’addentare pezzi di industria comunitaria, hanno condiviso con i governi poco o nulla in termini di piani di sviluppo e tecnologia. Come a dire, si viene, si compra ma poi quello che succede dentro lo stabilimento lo sanno solo a Pechino. Adesso è tempo di cambiare musica.

La Commissione europea sta lavorando, infatti, a una serie di proposte che puntano a impartire una stretta alle regole sugli investimenti esteri diretti, in particolare con l’obiettivo di limitare la capacità della Cina e delle sue aziende di trarre vantaggio del mercato aperto della Ue senza generare benefici per l’occupazione e senza condividere tecnologie. Insomma, se proprio la Cina deve investire in Europa, anche quest’ultima ci deve guadagnare. E mica spiccioli.

Tutto parte da un presupposto: lo scorso anno, sempre secondo la stessa Commissione, gli investimenti diretti della Cina nella Ue sono aumentati dell’80% a 9,4 miliardi di euro. Troppo per Bruxelles. La quale ha deciso di reagire negli stessi giorni in cui il presidente francese Emmanuel Macron si è recato in Cina, portando una pattuglia di grandi aziende transalpine con l’obiettivo di ottenere una serie di accordi commerciali, ma anche per cercare sponde per l’Ucraina.

Appunto però l’Ue sta valutando un pacchetto di norme, che arriverà nei primi mesi del 2026, per rafforzare i controlli sulle acquisizioni già introdotti nel 2019, una sorta di grande golden power europea: gli investimenti stranieri saranno autorizzati se creeranno lavoro e dimostreranno di poter rafforzare le catene del valore europee. Resta da capire l’impatto effettivo della nuova stretta, materializzatesi a poche settimana dallo stop da parte del governo tedesco all’acquisto di una quota della rete del gas teutonica da parte di Snam, proprio perché quest’ultima è controllata da Cdp Reti, dentro la quale figura un forte azionista cinese, State Grid.

Una cosa è certa, la posta in gioco è alta. Nei prossimi giorni si potrebbe decidere il futuro di un marchio simbolo del made in Italy, Riello (venduto dall’omonima famiglia veneta all’americana Utc, nel 2015). In corsa ci sono, guardacaso, due colossi cinesi produttori elettrodomestici, Haier e Midea, interessati a utilizzare il gruppo italiano come piattaforma commerciale per tecnologie prodotte in Cina. Il precedente è recente: Haier, proprietaria di Candy/Hoover, ha chiuso lo stabilimento Candy a Brugherio (Milano) e spostato la produzione in Cina, replicando lo stesso schema anche in Romania. L’esperienza europea mostra che, dopo l’acquisizione di marchi storici da gruppi cinesi, la promessa di sinergie industriali lascia spesso spazio a chiusure di siti produttivi locali e aumento della dipendenza tecnologica dall’estero.

Cina

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