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La protervia delle dittature non conosce pause, anzi. La penetrazione delle idee assassine riprende vigore. L’intolleranza verso gli avversari arruola nuovi soldati. Non è una bella stagione, in tutto il mondo, per la libertà e la democrazia, sempre più insidiate e assediate dai nostalgici, e/o dai neofiti, dell’autoritarismo e del totalitarismo. La vicenda dell’assalto a Brasilia da parte dei rivoltosi ostili al presidente Lula da poco reinsediato, rappresenta, in ordine di tempo, l’ultima sfida al vivere civile e alla tolleranza umana. A quando, sulla Terra, il prossimo agguato alle istituzioni democratiche, cioè a quella convivenza pacifica che consente di regolare i conflitti con il dialogo, non già con le armi?

Eppure, nonostante tutto, nonostante i continui soprusi in atto, da lustri, ai danni di diverse democrazie, l’arendtiana “banalità del male”, che si esplica nelle aggressioni interne ed esterne da parte dei vari dispotismi, fa presa, in Occidente, su una larga fascia di intellettualità e classe politica, sempre più ciniche e indifferenti verso le sofferenze provocate dalla perdita delle libertà.

Nemmeno l’invasione dell’Ucraina ad opera delle truppe di Vladimir Putin ha scosso le certezze granitiche di chi ha in odio la società aperta ora sognata da Kiev perché la società liberale sa coniugare democrazia e mercato, sa conciliare sviluppo e socialità. Anzi, se c’è un filo rosso che unisce molti pacifisti, dichiarati o no, putiniani o no, questo va ricercato nella loro contrarietà all’invio di armi a Volodymir Zelensky, che poi vorrebbe dire resa totale allo zar del Cremlino.

Chi appartiene al partito trasversale degli irenisti assoluti, che spesso è l’altra faccia del partito dei cinici, farebbe bene a leggere l’ottimo volume di Vittorio Emanuele Parsi, accademico, saggista, editorialista (Il Messaggero), il cui titolo è “Il posto della guerra e il costo della libertà” (Bompiani editore, 201 pagine, 17 euro). Troverebbe, questo moderno cinico, una filiera di argomentazioni sulla questione ucraina – dalla posta in gioco per l’Europa e l’intero Occidente al dovere di battersi con tutti i mezzi in difesa delle liberaldemocrazie -, così serrata e convincente da chiederci per quale ragione neppure l’evidenza dei fatti e dei misfatti (perpetrati dagli invasori) porta acqua al mulino della verità e della libertà.

Il libro di Parsi non è solo un inno all’Ucraina smaniosa di occidentalizzarsi, non è solo un’orazione pro Europa sulla scia della perorazione lascito di un fantastico intellettuale come Raymond Aron (1905-1983), autore, negli anni della Guerra Fredda, dell’addolorato saggio “In difesa di un’Europa decadente”. Il libro di Parsi è un appello per la libertà, per l’ecologia della libertà, corredato da un’analisi dettagliata della geopolitica mondiale e da una riflessione appassionata e documentata sui termini dello scontro tra società liberali e società illiberali.

La libertà non ha prezzo, ci ricorda Parsi. I valori di libertà non sono negoziabili. Solo tra le democrazie la pace è irreversibile, solo le democrazie non aggrediscono mai, ecco perché è inaccettabile mettere sullo stesso piano, in una guerra come quella dichiarata da Putin, le ragioni dell’aggredito e le tesi dell’aggressore. La verità è che Mosca, più che la Nato, teme la possibile contagiosità del modello democratico, teme l’appeal della pace democratica.

Non è solo la pretesa di sottomettere l’Ucraina a mettere a repentaglio l’equilibrio internazionale. Vanno aggiunti il caso Taiwan e il nodo mediorientale, per citare le due vertenze più delicate.

Intendiamoci. Fino alla Seconda guerra mondiale, anche l’Occidente non era un modello di cui vantarsi: i suoi imperi coloniali hanno prodotto pagine di storia di cui nessuno può andare orgoglioso. Ma oggi è diverso. Oggi, invece, osserva Parsi, proprio la Russia, quella che pretende di dare lezioni etiche agli Usa e a tutti gli altri, resta l’unica grande potenza coloniale ancora in piedi, attiva. Il moderno Occidente non progetta annessioni territoriali né cerca di imporre sovranità limitate, tanto meno alimenta incubi orwelliani, che allarmano le nazioni contigue a Grandi Fratelli onnipotenti e insaziabili.

Non è sufficiente, per Parsi, rendere la guerra un tabù infrangibile. Bisogna rafforzare in continuazione le democrazie, dal momento che, quando quest’ultime s’indeboliscono o si distraggono, le tirannie ne approfittano per mandarle al tappeto. Ma corroborare le democrazie in funzione della pace non è semplice come bere un bicchiere d’acqua. Bisogna cedere sovranità. Bisogna ridimensionare la sovranità dei singoli stati a beneficio degli organismi sovranazionali e federali. Perché se la guerra fa lo stato, lo stato fa la guerra. La correlazione tra stato e guerra è intrinseca e dura da secoli. Serve un programma di domesticazione di sovranità, solo così, per intenderci, l’Europa potrà trasformarsi nel posto della pace, rompendo con la tradizione che, per tanto tempo, l’ha vista e tramandata come posto della guerra. Serve una nuova sovranità europea, anche per controllare gli eccessi del mercato che, a sua volta, può e deve controllare gli eccessi del potere politico. Un difficile equilibrio quello tra politica e mercato, ma guai a rinunciarvi.

In ogni caso, avverte Parsi, occorre impedire che il crimine paghi. Senza Monaco 1938 non ci sarebbe stata Danzica 1939. La Nato non ha mai abbaiato ad alcun confine russo. Semmai è stata la prospettiva inquietante di uno scenario di guerra jugoslavo ad aver spinto molte repubbliche ex sovietiche confinanti con la Russia a chiedere riparo nell’Unione europea e nell’Alleanza Atlantica. Di qui la rinascita della Nato, adesso insostituibile in Europa specie dopo la coltellata all’Ucraina. Di qui l’improponibilità del pacifismo senza se e senza ma, che significherebbe la rinuncia a difendere libertà e democrazia.

Ecco il punto. L’Europa è disposta a difendere in tutti i modi, con ogni mezzo, cioè anche con le armi, queste sue preziosissime conquiste, visto che la libertà implica sempre un costo? E fino a quando l’Europa sarebbe disposta a farlo? La risposta non è scontata. E però, lascia intendere Parsi, non ci sono altre strade da percorrere se si vuole conservare quel modello liberaldemocratico che finora ha assicurato pace, libertà e progresso. Fra l’altro, non c’è solo la Russia a turbare il sonno dell’Occidente. Anche la Cina, che vuole prendersi Taiwan e i suoi semiconduttori, non è un interlocutore accomodante, malgrado le sue recenti difficoltà legate alla pandemia.

Conclusione. La libertà ha un costo. Pena la sua soppressione. È questa la prima lezione impartitaci dall’Ucraina, che sta combattendo (anche) per tutti. E però l’esercito dei sordi e dei cinici, in Occidente, pare sempre assai affollato.

 

 

 

La libertà ha un costo. L’Occidente è disposto a pagarlo? De Tomaso legge Parsi

Il libro di Vittorio Emanuele Parsi, “Il posto della guerra e il costo della libertà” (Bompiani editore) è un appello per la libertà, per l’ecologia della libertà, corredato da un’analisi dettagliata della geopolitica mondiale e da una riflessione appassionata e documentata sui termini dello scontro tra società liberali e società illiberali. La lettura di Giuseppe De Tomaso

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