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Si fa un bel parlare, in questi giorni della settimana santa, dello snaturamento della religione popolare in prospettiva culturale e turistico-commerciale che un po’ in tutt’Italia, anche nel Meridione e in Sicilia, è avvenuto negli ultimi scorsi decenni.

Si tratta, più precisamente, dello slittamento dalla pietà popolare al folclore, cioè – come dice il termine coniato nel 1846 dallo scrittore William John Thomps: Folk-lore – il passaggio dalla custodia e dalla trasmissione intergenerazionale della più elementare e genuina “fede ecclesiale” alla riscoperta e alla fruizione ben organizzata di un certo “sapere popolare”. Questo passaggio fu motivato, a metà Ottocento, da interessi scientifici: era l’epoca in cui si affermavano ovunque – in Sicilia, per esempio, con il palermitano Giuseppe Pitré – le ricerche di antropologia culturale e gli studi etnografici, demoscopici, sociologici. Nel 1903 Michele Alesso dava alle stampe un suo saggio su Il giovedì santo in Caltanissetta (Usi, costumi, tradizioni e leggende), nella cui prefazione dichiarava l’intento di “porgere anch’io – annotava – il mio modesto contributo al Folk-lore della patria mia”. Evidenzio il caso di Caltanissetta perché è una delle diciotto città europee che costituiscono una rete internazionale tesa a valorizzare culturalmente le tradizioni popolari pasquali.

Alesso ancora all’inizio del secolo scorso, se da una parte segnalava l’attrattività della processione nissena dei Misteri, capace di richiamare già all’epoca numerosi spettatori “forestieri”, al contempo rilevava con accenti critici la deriva dalla pietà popolare alla folclorizzazione – e quindi alla secolarizzazione – dell’evento. Così scriveva: “È innegabile però che nei tempi, in cui si avevano gruppi alquanto meschini e si faceva la processione con minor pompa e con minor chiasso che ora, era anche maggiore la divozione e l’entusiasmo religioso; mentre oggi, pur vantandoci di possedere gruppi di gran lunga migliori, ed anzi artistici e grandiosi, non possiamo, a nostro malincuore, disconvenire che, al sentimento religioso e alla sincera divozione, sono subentrati il lusso e il fanatismo”. E continuava: “Riesce affatto impossibile il voler calcolare l’enorme folla che assisteva a quell’uscita dei gruppi statuari: uno spillo, lanciato per aria, per ricadere, non avrebbe trovato posto. A ciò bisogna aggiungere l’assordante vociare, i gridi de’ venditori ambulanti di lanterne, di dolci, di mènnuli e ciciri caliàti (càlia) e dell’immancabile simènza, non che la monotona cantilena de’ vari gruppi di ladanti, il lugubre rullo de’ tamburi e le incessanti marce funebri intuonate dalle diverse bande musicali. Momento d’immensa confusione!”.

All’inizio del secolo scorso, dunque, consumismo e deterioramento del sentimento credente si imponevano all’osservatore attento. È un fenomeno che in altre parti del Meridione e per altre manifestazioni della religione popolare si riscontra solo a partire dagli anni settanta – come hanno messo in luce studiosi del calibro di Alfonso Di Nola, Domenico Farias, Roberto Cipriani –, allorché le amministrazioni locali cominciarono a valorizzare turisticamente le tradizioni religiose, finanziandone lo svolgimento e decidendone la programmazione, al fine di esaltarne i risvolti spettacolari, magari recuperando consuetudini ormai dismesse da molti decenni o persino inventandone di nuove.

Nel cuore della Sicilia, invece, segnatamente a Caltanissetta, questo fenomeno si registrava già centovent’anni fa. Ciò a motivo del carattere spiccatamente civico sia della Real Maestranza, sia della processione dei Misteri, sia di quella – seppure con una postura molto più religiosamente composta – del Signore della Città, ovvero delle tre principali tradizioni della religione popolare nissena. È proprio il carattere civico a invocare l’intervento e la partecipazione, poi anche il patrocinio e infine la gestione, da parte dell’amministrazione pubblica. Da un punto di vista interno all’orizzonte ecclesiale, non c’è da scandalizzarsene: è l’indole stessa della settimana santa nissena – lo ribadisco – a prestarsi a questo tipo di slittamento dalla pietà popolare alla folclorizzazione. Semmai dovrebbe destare una certa perplessità il fatto che, talvolta, in ambito peculiarmente liturgico si finisce per recepire acriticamente le superfetazioni coreografiche rappresentate da pittoreschi cortei in costume che si innestano abusivamente nell’azione liturgica in occasioni solenni come la messa di Natale (si pensi ai figuranti vestiti da pastori con al seguito qualche pecora belante), o come la messa dell’Epifania (si pensi ai figuranti vestiti da magi che irrompono fino ai piedi dell’altare portando i doni dell’offertorio), o come la messa delle Palme (si pensi ai preti in  vesti liturgiche a cavalcioni su un asinello, trasformato lui stesso in un figurante).

Un’ultima sottolineatura reputo di dover fare nelle belle pagine di Michele Alesso. Il quale annotava che le statue dei Misteri nisseni apparivano agli occhi degli ammiratori come “eseguite con l’anima”. Nella “vara” della Caduta egli segnalava in particolare “la fisionomia sublime del Cristo e la rabbia del manigoldo” che lo martoriava con le sue sferzate. Nella “vara” del Cireneo – scriveva ancora – “è bene indovinata la mossa del pietoso Cireneo”. E, a riguardo della “vara” della Condotta al sepolcro, Alesso annotava: “Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, come trasognati, hanno i loro sguardi fissi sul cadavere di Cristo, e ne’ loro volti lasciano mirabilmente trasparire il doloroso stupore che ha invaso i loro animi nel compiere la mesta cerimonia”. Sono rilievi che esaltano giustamente l’espressività dei volti plasmati in carta pesta dagli artisti d’origine napoletana che a cavallo tra Otto e Novecento realizzarono quei suggestivi gruppi statuari. Ma oggi quelle annotazioni di Alesso inducono a slargare lo sguardo sui volti in carne e ossa delle persone che partecipano alle processioni della settimana santa, ormai fotografati sotto ogni angolatura dai fotografi che corrono in lungo e in largo appresso in mezzo alla folla.

Passare in rassegna i volti fotografati durante la processione eucaristica della Real Maestranza, o durante la processione dei Misteri e ancor più durante la processione del Signore della Città, aiuta a rivedere i volti dei personaggi della passione del Cristo in quello delle persone che costituiscono il popolo che ancora – più o meno consapevolmente – con quei riti tradizionali ricorda d’essere stato redento. Sono volti di bambini e di adulti che li tengono per mano o in braccio, di giovani e di vecchi, di uomini e di donne, di padri e di madri che accompagnano i loro figli o che li pensano in fondo al cuore.

Certo, non tutti sono lì perché nutrono genuini sentimenti credenti: alcuni sono semplici spettatori di uno spettacolo che avrebbero potuto seguire anche restandosene a casa a guardare un film di Zeffirelli o un documentario di Giacobbo; altri sono turisti venuti appositamente a godersi una manifestazione folcloristica che mantiene gli arcaici crismi identitari di un popolo ormai sempre più meticcio e globalizzato. Ma è un fatto che s’impone all’attenzione, se questa è desta: sono volti che si ripetono tali e quali, con le stesse smorfie e le medesime pose, nei personaggi raffigurati dalle statue portate in processione non meno che nelle zoomate con cui i fotografi immortalano i portatori e la gente tutt’attorno. Volti che esprimono l’umanità che il Cristo ha assunto senza remore, senza riserve, senza parzialità. Volti distratti chissà da quali pensieri vaganti. O volti intristiti chissà da quali preoccupazioni insistenti. Sono volti che sorridono sì, ma spesso sommessamente e anzi mestamente: a scrutarli bene si potrebbero indovinare le lacrime trasparenti che vi scavano sopra rughe profonde. O, al contrario, sono volti concentrati sul dolore del Cristo in cui si immedesimano, eppure restando gioiosi, rallegrati dall’intuizione che la morte è penultima: anche per loro ricomincerà di nuovo la vita, vincerà la vita nuova.

I volti della Passione, la settimana santa tra pietà popolare e folclore

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