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Pier Luigi Castagnetti, bontà sua, afferma che “se cambiate natura al partito ne trarremo le conseguenze” durante un incontro, lunedì all’Istituto Sturzo a Roma, intorno a cui c’è stata l’abilità di costruire grandi aspettative e sicuramente non significativi contenuti: il prof. Arturo Parisi, alfiere del prodismo, in un tweet riprende la frase e afferma “Castagnetti guida la rivolta degli ex Popolari, ma soprattutto non spiega come mai tutto questo avvenga con Popolari come Letta e Franceschini alla guida del Pd”.

Vanno sottolineate le incongruenze: il primo parla di natura del partito, senza forse essersi accorto che da anni è membro dei Socialisti Europei (assurti all’onore della cronaca in questi giorni), già “partito del governo” per tanto tempo, ma prima ancora, contro l’opinione di Popolari come Gerardo Bianco e Alberto Monticone (che, infatti, per mantenere vivo il Popolarismo fondarono nel 2004 “Italia Popolare”), ci fu la Margherita, che finì liberaldemocratica e per sciogliersi deliberò che il partito plurale e culturalmente “contaminato” successivo non avrebbe dovuto finire nei socialisti.

Castagnetti, dunque, di che natura parla? Avendola liquidata illo tempore, non parrebbe di quella popolare. Si potrebbe discutere di eredità da parte di ogni singolo vecchio tesserato del Ppi, anche rispetto all’uso di vecchi strumenti e curiose sensazioni di impossibili nomine che sembrano a vita, ma la natura presupporrebbe una coerenza che si fonda sulle scelte. Il secondo personaggio citato evidenzia l’incongruenza più grande nella parola “ex”: è vent’anni che sono ex e, di fatto, hanno giocato la propria partita politica nella galassia correntizia progressista assumendo posizioni di rilievo e sopravvivendo politicamente anche sostenendo elettoralmente agende di tipo radicale. È evidente che da qualche parte ci sia un problema, un non detto che rende difficile comprendere, se ci si vuole estraniare dalla tattica interna legata al congresso del Pd: potrebbe essere individuata, questa questione, nell’incapacità di ammettere che hanno sbagliato tutto e nella subalternità culturale alla sinistra che, comunque, non viene abbandonata?

L’analisi rivelatrice arriva con lucidità grazie all’intervista a Formiche.net di Calogero Mannino che mette a nudo i limiti della storia e della presunta strategia che più che popolare andrebbe, con maggiore precisione, definita con le parole di Antonio Gramsci, ossia “cattolicesimo democratico” avendo realizzato i suoi alfieri la “profezia” suicida che apparve su “Ordine Nuovo” il 10 novembre 1919 (per chi desidera ripresa sul numero di dicembre de “Il Popolo Nuovo”, la newsletter nazionale di Italia Popolare). Mannino scavalca d’un colpo il politicismo sofisticato di tanti convegni e articoli – tra cui vanno annoverati anche quelli di coloro che, invece di alleanze, pensano a una presunta “area popolare” nel Terzo Polo, cioè in Renew Europe a livello europeo, sempre applicando una non dissimile e vecchia coazione a ripetere del modello “nido del cuculo” – e va nella concretezza della politica vera, quella che sturzianamente è capace di andare dall’idea al fatto: “Castagnetti e la sinistra democristiana hanno rinunciato al voto e alla rappresentanza politica dei ceti medi. E siccome ho evocato anche qualche conversazione del ’92 con Violante quando mi espose l’idea che, spaccando la Democrazia Cristiana, la sinistra democristiana e il Partito Comunista sarebbero stati al potere per cinquant’anni, vorrei citare un concetto di De Gasperi: la funzione della Democrazia Cristiana è quella di tenere, dentro il binario della democrazia e della libertà, il ceto medio italiano che si orienterebbe facilmente verso l’uomo qualunque e il movimento sociale, cioè verso il fascismo o verso il populismo …”.

Se il già ministro democratico cristiano non si offendesse, si potrebbe dire che ha scritto un ottimo epitaffio: la parte sulla Meloni centrista non appare completamente convincente, se si va ad aggettivare il “centro”, ma mette a nudo la necessità, questa sì, di ridare forza ad una autonoma soggettività popolare in Italia che deve collegarsi al Partito Popolare Europeo, che ha bisogno di una presenza mediterranea più forte portatrice di sana dialettica, che non può finire annullato dentro l’evoluzione conservatrice, iniziata ma ancora in fieri, della destra o schiacciato, sanando l’errore storico dell’uscita moralistica da esso del Ppi. La crisi di sistema in Italia è possibile e per questo serve ridefinire secondo le famiglie politiche europee la politica nazionale: le elezioni europee saranno l’orizzonte da cui si potrebbe consolidare tale ridefinizione. In quest’ottica serve che il Ppe non accompagni disgregazioni evidenti ma sostenga una nuova capacità di ritrovarsi.

Se “i morti seppelliscano i morti”, si deve ripartire dall’ispirazione in cui è radicato il popolarismo e dal pensiero del papa sulla pace possibile per far finire l’invasione dell’Ucraina, sulla lotta alla corruzione, sulla necessità della patria di figli contro la denatalità, sulla cura della terra, sul dialogo sociale, serve appellarsi all’arcipelago cattolico, che può uscire dall’irrilevanza se esce da falsi unanimismi, al terzo settore afono, al civismo dei produttori che fa ogni giorno grande questo Paese. Lo può fare una Italia Popolare perché non è solo e banalmente un assonante fronte contro i populismi ingrassati dai frontisti stessi.

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