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Nelle scorse settimane Formiche.net ha analizzato quali fattori potrebbero spingere a una rimozione (più o meno forzata) del Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin dal potere, e successivamente quali individui giocherebbero un ruolo nella transizione. Oggi ci concentriamo su alcuni tra i principali temi geopolitici, quelli che sarebbero più rilevanti in seguito a un cambio di leadership: l’enorme arsenale nucleare russo; i separatismi presenti all’interno della Federazione; i rapporti con l’Occidente.

Bisogna fare una premessa. In questo articolo si considera un solo scenario di transizione del potere, nel quale Vladimir Putin è stato rimosso con la forza tramite un’operazione di palazzo. Si dà quindi per scontato che, a seguito della rimozione, il Cremlino diventi il centro di sanguinose lotte di potere tra i principali esponenti degli apparati statali, per la maggior parte ex fedelissimi dell’attuale Presidente.

Nucleare

La Federazione Russa detiene la più grande riserva di armi nucleari del mondo, poco più grande di quella statunitense, la cui minaccia di utilizzo è un architrave essenziale su cui si regge la sicurezza internazionale russa e anche, in parte, la posizione diplomatica di Mosca da almeno trent’anni, lasciando da parte il periodo sovietico.
Non che la quantità significhi nulla di per sé, visto che diverse voci raccontano che l’arsenale russo sia stato aggiornato solo parzialmente dai tempi dell’Unione Sovietica. In ogni caso rimane una delle maggiori potenze nucleari del pianeta.

In un momento di incertezza della leadership, questo arsenale diventerebbe un simbolo di potere assai ambito, portando l’attenzione sull’amministrazione militare che se ne occupa: il XII Direttorato Generale del Ministero della Difesa (Gumo). Come ha fatto notare William Alberque, ex direttore dell’Arms Control Center della Nato, chi vorrà sedere al Cremlino dovrà concentrarsi sul radunare diverse parti dell’esercito, in particolare quella che controlla l’arsenale nucleare.

Autonomie

La Russia è il Paese più grande del mondo per estensione, attraversa undici fusi orari dalla Bielorussia al Mare di Bering, dal Caucaso all’Artico. Una caratteristica della leadership putiniana degli ultimi vent’anni è sicuramente quella di aver eliminato, o almeno messo a tacere, i separatismi interni alla Federazione. Il famoso e triste caso della Cecenia insegna, ma sono esistiti (e continuano a esistere sotto traccia) anche altri movimenti indipendentisti più o meno rilevanti e più o meno aggressivi con il governo centrale.

Per citare solo alcune tra le principali aree geografiche interessate da tali fenomeni (in ordine sparso): Circassia, Komi-Permyak, Ural, Chuvash, Karelia, Tatarstan, Komi, aree spesso molto grandi e popolate da etnie non russe (anche se il concetto di etnia russa ha poco senso per Mosca, già dall’Impero degli Zar). La frammentazione dell’entità statuale è sempre stata un incubo per i suoi governanti che ne temono le pulsioni separatiste. In caso di una lotta di potere dentro al Cremlino, gli occhi sarebbero puntati sull’esempio per eccellenza dei separatismi interni, ovvero il leader ceceno Ramzan Kadyrov. Se le autorità centrali dovessero essere occupate a massacrarsi tra di loro, una figura come Kadyrov potrebbe pensare che sarebbe il momento buono per costruirsi il proprio impero regionale.

Reset russo

Con questa espressione si indica generalmente il periodo del 2008-2009-2010 quando l’amministrazione Obama e quella dell’allora Presidente russo Medvedev iniziarono un percorso di distensione delle relazioni. La concessione di Mosca per cui le truppe americane potevano passare nello spazio aereo russo per andare in Afghanistan; l’abbandono del programma di difesa missilistica nell’Europa dell’est da parte di Obama; una convergenza di interessi tra le due parti nel voler sanzionare l’Iran; i notevoli avanzamenti sui negoziati per la riduzione degli armamenti nucleari; questi e altri episodi caratterizzarono un momento di particolare avvicinamento tra Mosca e Washington, per l’appunto un “reset”.

Quell’idillio terminò intorno al 2014 con i disordini in Ucraina, l’annessione della Crimea, e le divergenze di interessi nella guerra civile siriana.

Un simile reset oggi appare improbabile, considerando che un successore di Putin difficilmente abbandonerebbe i fondamentali della sua politica estera, ovvero la tutela dell’interesse russo. E’ possibile, però, che si creino alcune aperture soprattutto da parte della Germania, osteggiate dai Paesi dell’Est Europa. Uno scenario già visto.

Gli imperativi strategici russi

I cosiddetti driver strategici che guidano il pensiero delle élite le spingono a fare della Russia una grande potenza. Questo oggi si traduce nella competizione con il rivale statunitense, da Mosca percepito come egemone globale. Da qui l’obiettivo di lungo periodo, che non è assolutamente detto si riesca a raggiungere, di tornare a giocare il ruolo di leader benigno nell’estero vicino, allungando le radici strategiche nel mondo post-sovietico militarmente, culturalmente, economicamente, politicamente.

I temi per il dopo-Putin. Nucleare, rapporti con l'Occidente, separatismi

Prendere il controllo dell’arsenale nucleare, impedire l’emergere di pulsioni separatiste concrete, trovare un nuovo rapporto con l’Occidente. Questi sarebbero temi essenziali per un successore di Putin che dovesse emergere dopo una sanguinosa lotta interna al Palazzo

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