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Ramstein risponde a Mosca ma non abbastanza. Il Cremlino aveva alzato il livello del confronto con l’Occidente, non solo con Kiev. Una cinquantina di ministri della Difesa hanno prontamente ribadito, e rafforzato, l’assistenza all’Ucraina. Resta però uno squilibrio. La Russia è pronta a tutto pur di vincere la guerra – a Mosca, di negoziare con Volodymyr Zelensky non si parla neanche. Alla minaccia di guerra totale l’Occidente risponde con un sostegno parziale, causa la Germania che continua a bloccare l’invio dei carri armati insistentemente chiesti da Kiev. Questo incoraggia il Cremlino a continuare nella strategia di alzare la posta – della mobilitazione, dei bombardamenti e delle minacce politiche. Sul versante ucraino, indebolisce il “non vi lasciamo soli” di Guido Crosetto. La prudenza di Berlino è un doppio autogol politico a Mosca e a Kiev.

L’Ucraina non esce certo a mani vuote da Ramstein. Incassa aiuti militari ingenti, pur in parte già annunciati, che comprendono batterie antiaeree, compresa una Samp-T dall’Italia, e veicoli corazzati da Stati Uniti, Regno Unito e Francia. Ma resta a bocca asciutta sui Leopard 2 tedeschi. La Germania “non ha ancora deciso”. Dopo quasi un anno dall’aggressione russa all’Ucraina, “non decidere” è una scelta amletica. Delude Kiev e rallegra Mosca. Fa della Germania il battitore libero della squadra occidentale (Nato, Unione europea, G7) che sostiene l’Ucraina. Allunga l’agonia della guerra. Segnala assenza di leadership. E senza leadership tedesca l’Europa non può giocare un ruolo determinante in una crisi al centro dell’Europa.

Il gran rifiuto tedesco va inquadrato nella crisi apertasi nella sicurezza europea dal 24 febbraio scorso. Attaccando pretestuosamente l’Ucraina, Mosca ne ha capovolto le regole, scritte e non scritte, per affidarsi alla guerra anziché alla politica e alla diplomazia e minacciare sorti e frontiere di uno Stato indipendente, internazionalmente riconosciuto, membro delle Nazioni Unite, dell’Osce eccetera; di cui si era impegnata, formalmente, a rispettare sovranità e integrità territoriale nel 1994 (memorandum di Budapest). Il conflitto in corso è russo-ucraino; la crisi di sicurezza è europea, anzi euro-atlantica. La difesa dell’Europa è incardinata nell’alleanza con Stati Uniti e Canada via Nato, che ha assicurato tre quarti di secolo di pace e prosperità nel nostro continente dopo due guerre mondiali che l’avevano dissanguato nel giro di trent’anni. Trovatesi in un vuoto di sicurezza, Svezia e Finlandia si sono precipitate a chiedere di entrare nella Nato. La neutralità che le aveva ben servite durante la guerra fredda non basta più, l’involucro Ue è troppo fragile; ci vuole l’articolo 5 del Trattato di Washington (un attacco contro uno è un attacco contro tutti).

Il venir meno dell’opzione neutralità in Europa è conseguenza della guerra russo-ucraina. Gli sparuti “neutrali” rimasti (Austria, Svizzera, Irlanda) sono letteralmente circondati dalla fascia di protezione Nato; con cui, senza dar troppo a vedere mantengono rapporti di consultazione politica e sviluppano l’interoperabilità militare. Nella guerra russo-ucraina gli europei non sono neutrali. Questo ha prodotto due conseguenze principali: le sanzioni Ue alla Russia, a costo di non indifferenti sacrifici energetici; gli aiuti militari a Kiev. Sono misure che puntano a far fallire l’aggressione russa come primo passo per ristabilire un quadro di sicurezza in Europa. Quest’ultimo richiederà sicuramente il salto dalla guerra al negoziato – sia bilaterale fra Russia e Ucraina che collettivo, cioè di tutti i paesi dello spazio euro-atlantico – ma la strada per arrivarci passa attraverso il successo militare dell’Ucraina nel difendersi dall’attacco subito. Altrimenti non sarà più sicurezza; sarà l’imposizione della legge del più forte: un passo indietro al 1939-40. La Germania, che ha il merito incommensurabile della profonda catarsi dal passato nazista, dovrebbe essere la prima a rendersene conto.

L’Ucraina non è nella Nato. Per difendersi può fare affidamento esclusivamente sulle proprie risorse umane ma la fornitura di mezzi dai Paesi Nato e Ue è indispensabile. È dall’inizio della guerra che Kiev chiede armi che gli hanno permesso di resistere all’aggressione e di recuperare, a caro prezzo di sangue e sacrifici, parte del territorio occupato brutalmente dai russi. Si avverte adesso una nota di urgenza nella richiesta di carri armati. La guerra è infatti giunta a un tornante cruciale. I Leopard servono per tenere testa ad una temuta offensiva russa nell’arco dell’inverno-primavera, secondo esperti e intelligence. Servono anche per recuperare altro territorio perso dopo l’invasione russa. A Ramstein il capo di stato maggiore degli Stati Uniti, Mark Milley, ha parlato di una ristretta “finestra di opportunità” temporale. Pur senza sbilanciarsi, Washington sta indicando che per arrivare ad una trattativa con la Russia da una posizione negoziale forte gli ucraini hanno bisogno di un successo militare. A questo servono i Leopard.

Berlino – che non li deve fornire, solo autorizzare altri a darli – risponde che ci sono “pro e contro”. Non spiega quali. Viene il dubbio che non lo sappia ma preferisca illudersi che bisogna prima “cercare soluzioni diplomatiche” come ha detto Joe Weingarten, compagno di partito Spd del cancelliere Olaf Scholz. Neppure queste sono state spiegate. La coalizione di governo è divisa; liberali e verdi sono per dare luce verde ai Leopard. Intanto il tempo stringe. Il rischio è che quando la Germania deciderà si siano perduti giorni, settimane o mesi nel dare all’Ucraina la capacità di difendersi e nel far capire alla Russia che è ora di passare dalla guerra alla diplomazia. Non saper decidere può avere conseguenze tragiche. Chiedere a Amleto.

(U.S. Army Europe photo by Visual Information Specialist Markus Rauchenberger/released)

Ramstein e Berlino, il costo del non decidere. Scrive Stefanini

Dopo quasi un anno dall’aggressione russa all’Ucraina, “non decidere” sui Leopard è una scelta amletica. Delude Kiev e rallegra Mosca. Fa della Germania il battitore libero della squadra occidentale che sostiene l’Ucraina. Il commento di Stefano Stefanini, già rappresentante permanente dell’Italia alla Nato

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