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La fine della Guerra fredda ha cambiato le priorità della politica estera italiana e, di conseguenza, le necessità dell’intelligence, a cui fino al 1989 il sistema occidentale affidava prevalentemente attività di controspionaggio. Parallelamente alla dissoluzione dell’impero sovietico il mondo ha assistito a un enorme sviluppo dell’information technology. Come spiega un articolo pubblicato dal Centro intelligence interforze, una struttura di intelligence del II Reparto informazioni e sicurezza dello stato maggiore della Difesa, a quel punto i servizi di intelligence “hanno iniziato” a indirizzarsi “sempre più verso una ricerca di informazioni ottenuta per tramite di sofisticatissime apparecchiature elettroniche e, contestualmente tramite lo sfruttamento della rete d’interconnessione globale ossia Internet”.

E questa nuova modalità “ha portato a trascurare le attività Intelligence in cui l’uomo è il principale strumento di acquisizione delle informazioni ossia lo Humint”. Tuttavia, continua lo stesso testo, l’11 settembre ha “dimostrato che, per quanto si possa disporre di tecnologie costosissime ed avanzatissime, queste non riescono a fornire da sole una percezione sufficiente dei sentimenti e delle intenzioni di popolazioni, gruppi sociali o singoli individui”. Per questo motivo, a partire dall’attentato alle Torri gemelle, si è riscoperto lo Humint “come strumento indispensabile per capire effettivamente verso quale direzione si sta muovendo la minaccia reale o potenziale e in quali forme potrebbero concretizzarsi le sue azioni”.

All’intelligence italiana, tuttavia, sono impedite le attività della cosiddetta penetrazione informativa, cioè di quella che il Glossario intelligence publicato tre anni fa dai Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica definisce “attività info-operativa condotta da un servizio di informazione per acquisire notizie in ambienti o organizzazioni di interesse, avvalendosi di uno o più infiltrati”. Attività cruciali, le cosiddette “leggende”, per il lavoro di agenzie come la Cia negli Stati Uniti, il Mossad in Israele e la Dgse in Francia, solo per citare tre esempi.

Oggi i funzionari dell’intelligence italiana all’estero sono accreditati presso le ambasciate. Ma, come raccontato su Formiche.net, un emendamento unitario (con parere positivo del governo) al decreto Aiuti bis prevede che l’Aise possa “impiegare proprio personale” al fine di “attività di ricerca informativa e operazioni all’estero”. Il testo è vittima dello stallo in Senato ma segnala la volontà di cambiare passo.

A tal proposito torna utile rileggere quando scriveva a fine 2007, pochi mesi dopo l’approvazione della riforma del sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica tramite la legge 124 del 2007, il presidente della Repubblica emerito Francesco Cossiga, appassionato conoscitore del mondo dell’intelligence. Suggeriva alcune modifiche alla norma in questa direzione. Proponeva, infatti, di assegnare all’Aise anche i compiti di “individuazione, contrasto e neutralizzazione delle minacce che, sul territorio estero, sono rivolte alla difesa esterna e alla sicurezza interna della Repubblica” e  lo “svolgimento all’estero di qualunque altra missione venga ad essa affidata dal Governo della Repubblica (…) per la protezione della difesa esterna e della sicurezza interna della Repubblica, per la tutela e la promozione degli altri interessi nazionali e per la sicurezza dei cittadini italiani e di quelli di cui lo Stato assuma la protezione e dei loro beni”.

Operazioni sotto copertura. La lezione di Cossiga 15 anni fa

Nel 2007 il presidente emerito proponeva di assegnare all’Aise anche i compiti di “individuazione, contrasto e neutralizzazione delle minacce che, sul territorio estero, sono rivolte alla difesa esterna e alla sicurezza interna della Repubblica”. Nella stessa direzione vanno le modifiche proposte oggi e che sono bloccate in Senato

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