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Una campagna elettorale che si svolge con regole studiate per favorire le coalizioni e che vede parteciparvi una coalizione vera e propria cui si contrappone una mini coalizione figlia di due delusioni d’amore “politico” non può che condurre a un esito scontato, anche perché quella coalizione non governa da ben undici anni, con ovvio vantaggio nella corsa al voto.

Quindi noi abbiamo di fronte elezioni non tanto utili per stabilire chi andrà al governo, ma, più semplicemente, per capire se l’italico destra-centro a guida Meloni sarà in grado (nell’ordine) di: a) avere una maggioranza numericamente credibile al Senato, b) formare un governo senza sprofondare in litigi nel giro di pochi mesi, c) governare con buona lena senza battagliare con il mondo intero dando esecuzione al programma proposto agli italiani.

Tutto ciò è palesemente dimostrato da alcuni accadimenti occorsi nell’ultimo mese al Pd, cioè il partito di gran lunga più forte nel palazzo, dove regna quasi incontrastato dal 2011. I fatti sono (almeno) quattro e meritano una piccola ma esaustiva elencazione.

Primo: il Pd ha cercato di difendere l’esperienza del governo Draghi nella crisi di luglio con impegno, è noto a tutti. Però il tentativo è fallito, nonostante un vastissimo schieramento di forze (sindaci, associazioni di categoria, mondo cattolico, massime autorità internazionali, comunità finanziaria). Di solito questo accade quando il vento ha già iniziato a soffiare “contro”.

Secondo: il lodevole sforzo di Enrico Letta di caratterizzare la sua segreteria attraverso due accordi strategici con il M5S ed Azione (vedi alla voce “Campo Largo”) è uscito sgretolato dalla volontà del primo di arginare l’emorragia di consensi abbandonando l’assai poco apprezzato (da Conte) premier “tecnico” e dalla sofferte decisione di Calenda di cercare (non senza tentennamenti) la strada della corsa solitaria in formato Terzo Polo (con Renzi, guarda caso il meno amato proprio dal segretario del Pd).

Di solito le cose vanno così quando il vento soffia contro, perché difficilmente si lascia una coalizione se c’è alta probabilità di vittoria, come dimostra anche il clamoroso schiaffo di Conte al Pd in Sicilia, dopo aver celebrato persino le primarie insieme.

Terzo: lanciati quattro giovani candidati capolista under 35 il Pd se n’è trovati due subito invischiati in burrascose polemiche sul fronte internazionale (Israele), con conseguente ritiro di una candidatura (quella di Raffaele La Regina). Anche qui: come da legge di Murphy il problema arriva sempre preciso come un metronomo. Ma anche questa vicenda è segno che il vento non è quello buono.

Quarto: il caso Ruberti a Roma (e Frosinone) è molto più significativo di quanto potrebbe apparire ad una lettura superficiale. E non parlo di (eventuali) aspetti “indicibili”, essi saranno oggetto di attenzione delle autorità competenti. Parlo della vita interna a un partito nelle ore decisive in cui si formano le liste: ore nelle quali un video di due mesi prima viene scagliato nell’arena suscitando un terremoto a orologeria, con conseguenti dimissioni di uno dei protagonisti del litigio e uscita dalle liste elettorali di un secondo partecipante alla “vivace” discussione. Anche qui: se c’è aria di vittoria, se il vento soffia a favore, quel video rimane sepolto non per due mesi ma per due secoli, mentre invece esplode come una mina antiuomo al momento giusto.

Il Pd ha tirato la carretta per oltre un decennio.

Dalla fine (ingloriosa) del governo Berlusconi nel 2011 si è messo sulle spalle onore ed onere del governare, ricavandone molto potere ma anche una certa usura, come dimostra l’evidente spirito di sollievo con cui Zingaretti ha lasciato la segreteria.

Qui non si tratta di prendersela con Letta, che sta facendo il possibile. Ma siccome il possibile non sempre basta, ecco avanzare il bisogno vero, quello forte: aprire una nuova stagione politica, mestiere che si fa assai meglio all’opposizione. Dove ci si lecca le ferite, si costruisce una nuova classe dirigente, si cerca di respirare aria nuova.

Il Pd, in definitiva, ha interesse ad una chiara e onesta vittoria di Meloni ed alleati.

La destra dovrà dimostrare di saper governare, dopo aver passato anni a criticare (nulla di osceno, è il mestiere dell’opposizione). La sinistra avrà così modo di ripensarsi, aggiornarsi, evolvere. E trovare, se ne sarà capace, nuove alleanze, dentro e fuori il Parlamento.

La sinistra italiana ha bisogno di andare all’opposizione (per rigenerarsi)

Non si tratta di prendersela con Letta, che sta facendo il possibile. Ma siccome il possibile non sempre basta, ecco avanzare il bisogno vero, quello forte: aprire una nuova stagione politica, mestiere che si fa assai meglio all’opposizione. Il commento di Roberto Arditti

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