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Globalizzazione e digitalizzazione, unite alla disponibilità di manodopera, capitale e materie prime a basso costo, hanno garantito negli ultimi decenni la stabilità dei prezzi in un contesto di elevata crescita mondiale. Oggi assistiamo a un cambio di paradigma nell’economia mondiale il cui segnale più evidente è rappresentato dal ritorno dell’inflazione.

Viviamo in un presente eccezionale, in cui grandi cambiamenti avvengono in tempi rapidissimi. Un tempo nel quale crisi di diversa natura si susseguono facendo emergere tutti i grandi nodi irrisolti del recente passato; un tempo in cui l’idea stessa di futuro ha subito un’accelerazione imponendoci di prendere piena consapevolezza della portata e della velocità, innanzitutto, della rivoluzione tecnologica digitale e dei cambiamenti climatici in atto; un tempo in cui la guerra in Ucraina favorisce il disaccoppiamento tra USA e Cina anche attraverso un ridimensionamento dell’off-shoring, con catene di approvvigionamento convenienti dal punto di vista economico, ma abbiamo visto quanto fragili, e l’emergere del friend-shoring con catene più legate ai rapporti geopolitici e inevitabilmente più costose; un tempo in cui le banche centrali abbandonano la via del denaro facile; un tempo in cui il brusco risveglio dei leader occidentali li ha portati a comprendere che affidarsi pienamente a regimi autocratici è rischioso più di quanto non sia probabile che i processi economici di mercato possano farli evolvere verso uno schema liberale; un tempo nel quale gli scenari di prosperità e pace prospettati a cavallo tra il secondo e il terzo millennio rischiano di dover essere rivisti in maniera drastica.

Il processo di globalizzazione avvenuto negli ultimi decenni ha, infatti, accresciuto enormemente il grado di interdipendenza sistemica dei vari paesi, favorito attraverso gli scambi e la specializzazione produttiva la crescita dell’economia mondiale, ma anche innescato l’emergere di squilibri economici, finanziari, sociali, ambientali e geopolitici di grande portata.

Uno degli effetti più rilevanti del processo di globalizzazione è stato, in particolare, lo spostamento della produzione mondiale dall’Occidente all’Oriente. La Cina è stata al centro di questo processo di sviluppo con la propria quota sulla produzione globale di valore aggiunto manifatturiero cresciuta dal 4% del 1990 al 31,3% del 2020 (UNIDO, 2022). Questo significa che in tre decenni la Cina è diventata il più grande paese manifatturiero del mondo.
La globalizzazione ha anche stimolato l’emergere di forti dipendenze strutturali, di cui quella relativa alla produzione di energia è attualmente la più evidente. Più in generale, l’accresciuta interdipendenza delle economie ha generato le tensioni strutturali sui prezzi che oggi osserviamo sotto forma di elevata inflazione aggravata dagli effetti del conflitto tra Russia e Ucraina.

Nell’attuale fase, la fine del gas russo a basso costo, la spinta globale verso la sostenibilità ambientale, l’accorciamento delle catene del valore e l’avvio di processi di re-industrializzazione dell’Occidente ci stanno portando verso un mondo strutturalmente più inflazionistico, almeno nel breve – ma, a quanto pare, non brevissimo – termine.

È l’esatto contrario del paradigma che abbiamo sperimentato negli ultimi 30 anni: una sfida difficile da affrontare per tutte le economie e le istituzioni del pianeta. Questo cambio di paradigma si riflette nel cambio di rotta da parte delle banche centrali nella politica monetaria. Fine dell’era dei tassi zero o negativi e risalita dei tassi d’interesse.

E se è vero che con l’inflazione il valore dello stock di debito diminuisce, un forte rialzo dei tassi potrebbe condurre a una recessione e quindi a una riduzione delle entrate fiscali, con conseguente aumento del debito in un possibile scenario di stagflazione e di forti tensioni sui mercati finanziari.
In questo contesto sarà difficile, e per certi versi inopportuno, ridurre la spesa pubblica, ma sarà allora fondamentale distinguere tra spesa produttiva o meno.

Ecco che il tema della distinzione tra debito “buono” e debito “cattivo” di cui ha parlato il Presidente Mario Draghi si impone come questione cruciale. La spesa produttiva in infrastrutture, tecnologie digitali e transizione verso l’energia pulita può essere inflazionistica nel breve periodo, ma in ultima analisi rafforza la posizione di un Paese, anche in termini di finanza pubblica, alimentando la crescita a lungo termine.

Rispetto a questo limitiamoci a formulare due osservazioni. La prima è che il Pnrr è, e deve rimanere, l’occasione per trasformare il Paese e il suo sistema produttivo per affrontare le sfide e la forte competizione globale che avremo di fronte nei prossimi decenni. L’Italia ha l’opportunità storica di realizzare un cambiamento strutturale fondato sulla capacità trasformativa dell’innovazione e della diffusione delle tecnologie digitali e verdi. Queste possono e devono svolgere un ruolo cruciale per facilitare il passaggio verso un modello di sviluppo basato sulla competitività tecnologica, che fa leva su investimenti continui in nuove tecnologie, attività di ricerca e innovazione.

La seconda è che occorre definire da subito una strategia che guardi oltre la scadenza del Pnrr, anche per rendere stabili all’interno del bilancio dello Stato quelle risorse aggiuntive previste nel Piano per investimenti produttivi a partire da quelli sulla ricerca. Su questo il documento sulla “Strategia italiana per la ricerca fondamentale”, presentato lo scorso luglio dal Tavolo tecnico istituito presso il Ministero dell’Università e della Ricerca, può rappresentare un buon punto di partenza.

Per il futuro del Paese, quindi, la vera questione è capire quanta parte della spesa sarà produttiva e se il governo avrà la capacità di tagliare con decisione ciò che non lo è.

Considerato il livello del debito italiano, è bene che chi si candida al governo del Paese lo abbia ben chiaro.

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Per il futuro del Paese, quindi, la vera questione è capire quanta parte della spesa sarà produttiva e se il governo avrà la capacità di tagliare con decisione ciò che non lo è. L’analisi di di Rosario Cerra, fondatore e presidente del Centro Economia Digitale, e Francesco Crespi, direttore ricerche del Centro Economia Digitale e Università Roma Tre

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