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Uno dei temi caldi dell’ultimo Vertice del G7 in Baviera riguarda la risposta della politica energetica occidentale al fine di sanzionare la Russia per la sua invasione dell’Ucraina. Finora le sanzioni sull’importazione di energia dalla Russia non hanno sortito l’effetto sperato perché l’export russo, anziché diminuire, è cresciuto notevolmente dirigendosi verso Cina, India e altri PVS, che hanno visto negli sconti praticati dai russi un’opportunità da non perdere. L’incremento delle quantità vendute ha ampliato gli introiti della Russia, più che compensando le riduzioni rispetto ai prezzi del mercato mondiale, che peraltro sono rimasti su livelli nettamente superiori a quelli di fine 2021. Dalla riconfigurazione delle correnti di commercio dei prodotti petroliferi escono, quindi, confermati i dubbi degli esperti sull’efficacia delle sanzioni commerciali come strumento di guerra economica, nel caso in cui le sanzioni non siano applicate su scala mondiale.

A questo insuccesso, invero, ha contribuito la scelta europea di applicare gradualmente le sanzioni, in considerazione della grande dipendenza di molti degli Stati membri dal fornitore russo. Tra i più vulnerabili si annoverano la Germania e l’Italia, che hanno voluto credere in un nuovo corso della Russia di avvicinamento e cooperazione con le democrazie occidentali, dimenticando l’espansionismo e lo spregiudicato uso della forza anche nella politica interna che per secoli hanno improntato la storia di quel paese. Entrambi i Paesi erano stati smentiti platealmente da Putin ancor prima dell’invasione della Crimea nel 2014, se si guarda al modo in cui ha eliminato i suoi oppositori politici ed asservito la stampa e i media interni. Eppure, malgrado queste evidenze, entrambi non hanno esitato ad accrescere la loro dipendenza da gas e petrolio russi, assegnando priorità alla convenienza economica di approvvigionarsi da un paese vicino rispetto alle esigenze di sicurezza energetica e diversificazione dei fornitori. In questo senso possono aver influito le scelte delle maggiori società energetiche.

Mentre tutti i Paesi europei stanno riducendo la dipendenza energetica dalla Russia, si trovano a doverne affrontare le costose conseguenze, rese ancora più visibili dall’improvvisa decisione russa di ridurre notevolmente le forniture ai maggiori acquirenti, tra cui l’Italia, e di tagliarle completamente a paesi di minori dimensioni (Polonia e Finlandia, in prima battuta). L’effetto sull’evoluzione dei prezzi sui mercati mondiali è stato immediato: da 25 febbraio al 27 giugno la quotazione del greggio Brent è salita del 18,6% e quella del gas naturale del 43,7% con notevole volatilità di andamento. Questi incrementi si sommano a quelli intervenuti da metà del 2021, con ripercussioni sul sistema dei prezzi e sull’inflazione a cui sono esposti consumatori ed imprese. I più penalizzati sono le famiglie e le piccole e medie imprese nei settori energivori, nei trasporti e nella logistica, con effetti a catena che tendono a propagarsi su tutto il tessuto economico. L’inflazione al consumo nell’Ue ha, pertanto, superato l’8% su base annua (8,1% a maggio scorso) e non sembra più un fenomeno passeggero senza effetti prolungati. Al contrario, anche per la Bce è ormai necessario spegnere una potenziale ricorsa tra prezzi e salari tirando i freni monetari.

L’erosione del potere di acquisto è divenuta così consistente da indurre diversi paesi europei a concedere un sollievo dai rincari mediante misure che mirano a ridistribuire, almeno per qualche trimestre, una parte dei maggiori oneri di spesa tra consumatori e compagnie energetiche, siano esse produttori o distributori/importatori. Queste misure sono parte di un più ampio progetto di ridefinizione delle politiche energetiche, che ha come altri principali componenti la diversificazione delle fonti di energia e della loro provenienza, gli incentivi alla ricerca e agli investimenti per la transizione verso le energie rinnovabili, e la revisione dei meccanismi di mercato per la determinazione dei prezzi.

L’Italia non è da meno in questo orientamento, senza tuttavia fare tesoro dell’insieme di errori di strategia accumulati negli ultimi decenni. La misura principe perorata con più forza consiste attualmente nel porre un tetto al prezzo del gas naturale da applicarsi su scala europea. La misura non ha ancora trovato l’accordo unanime tra i paesi dell’Ue, né tra quelli del G7 per diversi motivi. In primo luogo è una proposta che può declinarsi in diversi modi e che pone non pochi interrogativi, a cui non è data finora una risposta rassicurante.

Una modalità consiste nel fissare un massimale di prezzo di vendita sul mercato interno che ovviamente si tradurrebbe in un corrispondente limite dal lato dell’acquisto, sempre che non si voglia operare in perdita acquistando a un livello più alto di quello di vendita. Questo effetto si è prodotto sul mercato britannico dove il regolatore del mercato Ofgem ha introdotto dal 2019 (ma per alcune forniture dal 2017) un massimale tariffario che i fornitori di energia gas ed elettricità possono chiedere per kWh e che è composto dall’insieme del costo dell’energia e della distribuzione. Questo limite viene rivisto semestralmente per tenere conto dell’andamento del mercato, ma in realtà non avviene in misura sufficientemente frequente da impedire il fallimento di alcuni fornitori obbligati a vendere a prezzi inferiori ai costi di approvvigionamento, o l’abbandono del mercato da parte di altri meno competitivi dal lato dei costi. L’uscita dal mercato dei produttori è, in realtà, uno dei maggiori svantaggi del sistema dei prezzi limite.

La determinazione del limite di prezzo è un aspetto molto problematico sia per il suo livello, sia per la sua durata. Il livello dipende essenzialmente dall’obiettivo che si persegue, ovvero se si vuole sussidiare il consumatore con un prezzo politico, o si intende mitigare temporaneamente le impennate di prezzo derivanti dai mercati mondiali, o impedire che le compagnie energetiche approfittino delle restrizioni di offerta o dell’eccessiva volatilità delle quotazioni mondiali per rimpinguare i profitti. Ancora più complicato stabilire un massimale che sia ritenuto soddisfacente da tutti i Paesi dell’Ue, considerato che hanno strutture di costi diverse, differenze nella composizione dei sistemi energetici e dislivelli nei poteri d’acquisto della popolazione. La durata del limite pone altri problemi: neanche una revisione su base trimestrale pone al riparo da situazioni in cui i prezzi di vendita non coprono i costi.

Una diversa modalità consiste nel fissare un limite di prezzo per la vendita ai consumatori e coprire la differenza rispetto alle quotazioni mondiali attingendo al bilancio pubblico o ai margini di profitto delle compagnie energetiche. Qualora il prezzo mondiale superasse quello di vendita all’interno, il venditore verrebbe compensato per la perdita, mentre nel caso contrario verrebbe tassato, sempre che non si provveda a un riallineamento tra il prezzo limite e quelli mondiali. Anche in questo approccio sorgono le stesse difficoltà prima accennate, perché l’adeguamento del prezzo limite non avviene con frequenza, lasciando spazio a consistenti divergenze rispetto alle quotazioni mondiali. Se il livello fosse troppo alto ossia vicino a quello di mercato il vantaggio per il consumatore sarebbe modesto, mentre nel caso opposto la discrepanza sarebbe talmente ampia da scoraggiare l’offerta di energia.

Le spese per compensare le discrepanze potrebbero comportare oneri significativi per il bilancio pubblico o per le stesse compagnie energetiche. Spagna e Portogallo sono stati autorizzati dalla Commissione Europea ad applicare per un anno un tetto al prezzo (all’ingrosso) dell’elettricità in considerazione delle strozzature nelle connessioni della rete iberica col resto del mercato europeo, al peso del gas nella produzione elettrica ed alla particolare esposizione dei consumatori ai picchi di prezzo del mercato. Il limite è fissato a €40 per mWh, con un aumento di €5 ogni mese fino a raggiungere nell’anno un livello medio di €48,8. Si tratta di un tetto variabile in misura preordinata, tale da preparare i consumatori al carico crescente, ma rimane a un livello molto più basso delle quotazioni attuali di mercato e distaccato dalla loro evoluzione futura. La copertura del divario, stimata in 8,4 miliardi per i due paesi, è tratta dai ricavi per gli oneri di congestione della rete nelle operazioni commerciali col mercato francese e da un contributo a carico delle compagnie. Si è, pertanto, voluto mettere al riparo il bilancio pubblico da aggravi di spesa imprevedibili, caricandoli sui produttori di energia beneficiari dell’andamento dei mercati.

Anche questo approccio presenta inconvenienti importanti. Il prelievo sui produttori può incidere notevolmente sui loro utili e può determinare come reazione la riduzione dei piani d’investimento nel potenziamento degli impianti e nella transizione all’energia verde. Questo risultato si è già visto in Spagna, in Francia e nel resto dell’UE, spingendo i regolatori a mitigare l’onere. In Francia, in particolare, il maggiore produttore (EDF) è stato obbligato a cedere ai concorrenti una quota importante (40% circa) della sua produzione nucleare (120 TWh nel 2022) a un prezzo all’ingrosso decisamente scontato rispetto a quello mondiale (€46,20 per mWh contro quotazioni di mercato oltre quattro volte tanto). Quando l’energia nucleare prodotta non bastava, doveva acquistarla sul mercato a prezzi al di sopra di quelli di vendita con perdite che ne riducevano la capacità finanziaria per realizzare i necessari investimenti. Di fatto, lo Stato controllava la maggioranza di Edf e ne orientava le decisioni in vista dei suoi obiettivi di breve termine, piuttosto che di quelli societari e quelli di più lungo periodo.

Altri svantaggi del Price Cap risiedono nell’indebolire la funzione del mercato unico europeo dell’energia elettrica, come sottolinea l’Acer, l’organizzazione dei regolatori, distorce i segnali di prezzo provenienti dal mercato interno, allontana da un’allocazione efficiente delle risorse produttive, può produrre carenze di offerta di energia e ritardare la transizione verde. Più interessante appare l’approccio dell’Australia che fissa un massimale di prezzo di sicurezza (Default Market Offer) per proteggere i consumatori da prezzi ingiustificatamente alti. Il suo livello è determinato in misura tale da consentire ai distributori di coprire i costi, ottenere un margine di utile sufficiente e lasciare spazio alla concorrenza nell’offrire ai consumatori tariffe competitive. In altri termini, è un prezzo di riferimento per valutare la convenienza delle offerte dei distributori.

In Italia il governo è intervenuto per alleviare la bolletta energetica di famiglie ed imprese, e nel contempo per assicurare la stabilità delle forniture di gas ed altre energie. Tra la fine del 2021 e marzo di quest’anno ha già speso 20 miliardi per aiutare i consumatori e altri 3,2 miliardi sono in arrivo per aiutare a fronteggiare i rincari energetici. Si è, inoltre, impegnato nel diversificare i fornitori esteri, nel promuovere stoccaggi di gas al 90% della capacità entro fine anno e nel sostenere gli investimenti per potenziare la produzione interna e il collegamento con i paesi esportatori di LNG. Ma ha dovuto fare passi indietro nella transizione verde, per riattivare le centrali a carbone e coprire deficit di offerta. Ha anche propugnato un price cap europeo e ne ha introdotto uno proprio sotto altre forme. In particolare, mira ad applicare un contributo sui titolari di contratti d’importazione di gas a lungo termine se il loro prezzo supera quello stabilito dal regolatore, l’Arera, come costo medio efficiente di approvvigionamento per la vendita ai consumatori. Il prelievo durerebbe dal 1° luglio prossimo a fine marzo 2023. Nel caso di perdite per l’importatore, questi otterrebbe un rimborso nei limiti dei contributi versati. Il meccanismo, per quanto interessante, non è indenne dal comportare gli stessi svantaggi e difficoltà nel mediare tra esigenze di breve periodo (sollievo ai consumatori) e quelle di medio termine di rafforzamento e sicurezza dell’offerta.

Per altro verso, se si volesse veramente sanzionare la Russia, un price cap avrebbe scarsa efficacia, perché essa rifiuterebbe di vendere ai Paesi ostili, come gli europei, a prezzi al di sotto di quelli mondiali e, in ogni caso, è ben consapevole che questi non costituiscono un monopsonio e mirano ad azzerare gli acquisti della sua energia appena possibile. Sarebbe più efficiente imporre un dazio all’importazione in misura progressiva nel tempo a seconda del bisogno e tale da scoraggiare gli acquisti futuri dai russi.

 

 

 

 

Chi paga per il price cap su gas ed elettricità?

La Russia è ben consapevole che gli Stati europei non costituiscono un monopsonio e mirano ad azzerare gli acquisti della sua energia appena possibile. Sarebbe più efficiente imporre un dazio all’importazione in misura progressiva nel tempo a seconda del bisogno e tale da scoraggiare gli acquisti futuri dai russi. L’analisi di Salvatore Zecchini

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