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Negli ultimi anni il dibattito pubblico del nostro Paese si è spesso concentrato sul tema dell’immigrazione. Nel frattempo, come dimostra l’ultimo rapporto Italiani nel mondo, negli ultimi 20 anni il bilancio migratorio del nostro Paese è senza dubbio alcuno in rosso: dal 2006 ad oggi tale bilancio segna -817.000 persone, in prevalenza giovani.

Nel 2024, ad esempio, e guardando soltanto alle prime dieci destinazioni, gli italiani che hanno lasciato il Paese per andare in Germania sono stati quasi 14 mila; 12,5 mila quelli andati nel Regno Unito; circa 10 mila in Spagna e altrettanti in Svizzera, per poi passare ai quasi 8 mila per la Francia, ai circa 7 mila per il Brasile, ai 5 mila per gli Usa, e via via scendendo a 3,6 mila Argentina, 3,3 mila Paesi Bassi e meno di 3 mila in Belgio.

Rielaborando, e limitando il conteggio alle sole destinazioni più frequenti, hanno scelto di partire più di 76 mila persone. Praticamente una cittadina di medie dimensioni, composta però soltanto da giovani.

Perché partono? Il Rapporto Italiani nel Mondo tiene molto a sottolineare che non si può sviluppare su un fenomeno così complesso una valutazione dicotomica, e che quindi l’idea della “fuga dei cervelli” dovrebbe essere “smussata” perché proietta una visione capace di condizionare la realtà, una sorta di profezia che si autoavvera, insomma.

Si tratta di una riflessione corretta, perché sostenere che si tratti di una “fuga” e che si tratti di “cervelli” può presentare una dimensione che non riflette la realtà. È però vero che si tratta di persone che scelgono, per una serie disparata di ragioni, che il posto in cui sono nati, e che li ha in qualche modo “formati” (non solo in termini scolastici e universitari), non è il luogo in cui si sentono di costruire i successivi passi della loro esistenza.

I motivi quindi possono essere molteplici, e per quanto stipendio, carriera, sicurezza lavorativa, capacità di crescita professionale rappresentino senza dubbio dei tasti dolenti per il nostro Paese, c’è da riflettere anche su elementi che hanno più a che fare con una “cultura diffusa”.

Un ragazzo di 20 anni, ad esempio, potrà scegliere di partire per l’estero anche perché in altri Paesi c’è una “vitalità” che in molte delle nostre città è del tutto assente. O la possibilità di avviare carriere in settori che in Italia sono ben poco presenti, con conseguente scarsità di domanda, sovrabbondanza d’offerta, riduzione dello stipendio, aumento del precariato, e bassa mobilità sociale. Ma si può partire anche perché si ha una passione e in Italia non c’è modo di alimentarla: un Paese caratterizzato da un’età media alta è un Paese in cui la maggior parte dei servizi sono pensati per il target più diffuso.

Un elemento che è ben visibile nei palinsesti televisivi, ma anche nei teatri cittadini o nelle offerte culturali promosse dalla maggior parte delle istituzioni.

Si tratta di dimensioni che vengono considerate, più o meno esplicitamente, da chiunque decida di partire: si guarda al lavoro, certo, ma si guarda anche alla qualità generale della vita, alla qualità dei servizi, e a tutte quelle banalità che però concorrono attivamente al raggiungimento di una sensazione di piena affermazione di sé stessi.

La cultura può fare qualcosa per invertire questa tendenza? Ovviamente no. Di certo non si può pensare di far rientrare le persone con una politica a base di pizza, nostalgia e Colosseo.

Ovvio, anche con politiche a basso impatto trasformativo si possono ottenere dei rimpatri, ma nella maggior parte dei casi saranno persone che non hanno raggiunto quella piena affermazione che ricercavano in altri contesti. Sarà difficile per un ragazzo che è entrato a far parte di una start-up a 23 anni, e che a 28 ne è divenuto l’amministratore delegato, ritornare in Italia per fare il precario all’Università, o a guadagnare meno di un terzo di quanto possa fare all’estero.

In altri termini, sarà sempre molto costoso, per il sistema Paese, avviare delle politiche che convincano le menti migliori a ritornare in Italia, anche perché se quelle persone hanno ottenuto risultati brillanti, lo devono sicuramente alla loro determinazione, ma anche al clima culturale, relazionale e lavorativo in cui si sono inseriti. E che nella maggior parte dei settori è sicuramente molto diverso da quello italiano.

Quale soluzione dunque? Ridurre il più possibile la voglia di partire, ancorando il più possibile i giovani al nostro Paese. Come fare? La soluzione più corretta sarebbe quella di avviare un piano industriale pluriennale in grado di far emergere una vitalità imprenditoriale e di capitali molto elevata, così da rendere in ogni caso appetibile l’idea dell’imprenditorialità, e di favorire un incremento sano della concorrenza, riducendo l’impegno pubblico in alcuni settori e alimentando quindi una maggiore componente privata.

Dato che una politica di questo tipo è però praticamente impensabile per il nostro Paese, allora si può quantomeno favorire la nascita e la crescita di quei settori che vengono presi in considerazione quando si parte, e non quando si resta.

Favorire il finanziamento di attività di “nicchia”, che possano piacere ai giovani e ai giovanissimi, sviluppando azioni culturali e anche commerciali legate a fenomeni che la maggior parte dei referenti culturali e sociali ignora completamente l’esistenza.

Favorire lo sviluppo di un’aggregazione giovanile costruttiva, e quantomeno rendere il più possibile attraenti alcune parti delle nostre città per quelle fasce d’età che vengono immediatamente prima dell’exit. Fornire ai ragazzi la possibilità di autoaffermarsi non soltanto attraverso il lavoro, ma anche attraverso le loro passioni.

Avete mai fatto un giro nei piccoli paesini di provincia? La scelta delle cose da fare la sera è talvolta limitata all’uscire o al non uscire con gli amici, con quella sparuta manciata di alternative che quel territorio può fornire.

Abbiamo tutti letto la strategia delle aree interne, ed è più che mai chiaro che l’intento sia comunque quello di potenziare il nostro sistema urbano. Bene. Ma come potenziare un sistema che presenta dei costi di vita più elevati rispetto ad altri centri maggiori europei?

Una politica anti-emigrazione, quindi, non può limitarsi a sostenere obiettivi ben poco realizzabili (rendere l’Italia un luogo che sia realmente in grado di competere con altre aree del mondo) su tutto il territorio nazionale. Le nostre grandi città possono forse avvicinarsi alla dimensione produttiva, all’attrattività turistica, ma il nostro è un Paese vecchio, e ci sono tantissime cose che un Paese più giovane può offrire anche con una minore competitività economica, e anche con una minore bellezza della storia e del paesaggio (per quanto possano interessare la storia e il paesaggio a 20 anni).

Il nostro Paese deve avviare una politica anti-emigrazione attraverso le uniche leve di cui dispone: la capacità di creare un percorso “nuovo” per coloro che decidono di credere nella nostra Italia; la possibilità di poter vivere in un luogo che sia “bello” ma anche “stimolante” e “culturalmente attivo”, attraverso lo sviluppo delle nuove forme culturali; la capacità delle generazioni più giovani di affermarsi in un proprio contesto sociale di riferimento, reso possibile attraverso la costruzione di aree della città dedicate a quella fetta di popolazione.

Non dobbiamo immaginare che le nuove generazioni rispondano in modo simile al nostro ricordo di quando avevamo la loro età: molti dei Z o degli alpha sanno bene che la possibilità di avere un nucleo familiare solido può essere una condizione impagabile, sia sotto il profilo personale sia in termini di crescita dei propri figli. Lo sanno perché i “nonni” che partono per l’estero sono talmente numerosi da avere una “statistica a parte” nel report citato. Lo sanno bene perché l’Italia è un Paese in cui “la decisione di vivere altrove” è ormai una costante da decenni. Non possiamo rendere un centro di 50.000 abitanti altrettanto attrattivo e produttivo di una capitale europea. Ma possiamo quantomeno iniziare ad immaginare a come rendere quel centro “un po’ più attrattivo” per chi deve ancora decidere se partire o se restare.

Iniziamo ad immaginare uno sviluppo dei nostri territori coinvolgendo davvero e operativamente le persone che dovranno viverci domani. Cerchiamo di stabilire delle politiche concrete di sviluppo, fondate su cose che abbiamo e che siamo realmente in grado di fare.

Ogni volta che qualcuno parte valuta sempre i pro e i contro. Se non possiamo strutturalmente superare i “pro” dell’estero, allora facciamo in modo che i “contro” siano sempre più numerosi. E sempre più importanti.

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