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La guerra ancora non c’è, i cannoni puntati sì. Cina e Stati Uniti sono sulla rotta di collisione. Dopo ventiquattro ore di visita la speaker democratica del Congresso Nancy Pelosi ha abbandonato l’isola autonoma reclamata da Pechino. Ha incontrato la presidente Tsai Ing-wen – cui ha ribadito il sostegno americano, “gli Stati Uniti non vi abbandoneranno” – e un gruppo di attivisti per i diritti umani. Tanto è bastato per scatenare la furia di Xi Jinping. Che prende la forma di pericolose manovre militari limitrofe – a tratti sovrapposte – allo spazio territoriale e aereo taiwanese, in programma da giovedì a domenica.

Sarà guerra? Gran parte degli analisti esclude lo scenario di un’invasione militare immediata, ma il fattore imprevedibilità resta sul tavolo. Come i dubbi su un possibile intervento degli Stati Uniti a difesa dell’alleato. Ai microfoni di Formiche.net Zack Cooper, esperto dell’American enterprise institute (Aei), ha tagliato corto: di fronte a un’invasione cinese, “l’amministrazione Biden interverrà”. Prima di uno scontro aperto – probabile innesco di una guerra planetaria – c’è un’escalation da contenere, fatta di manovre militari, misure economiche coercitive, minacce.

A Pechino tutte le ipotesi sono sul tavolo. In attesa che le “esercitazioni” intorno a Taiwan prendano il via, gli analisti occidentali studiano gli scenari possibili. Si parte da incursioni nello spazio aereo taiwanese che possono sfociare in veri e propri trasvoli sui cieli di Taipei. Una provocazione pericolosa, perché la contraerea taiwanese potrebbe dover abbattere gli intrusi. Tra le altre ipotesi vagliate, l’occupazione militare di una parte delle acque territoriali o il lancio di missili al loro interno fino a un blocco marittimo o aereo dell’isola. O ancora, evoluzione incendiaria, l’occupazione di isole periferiche di Taiwan come Pratas, Kinmen o Penghu. Il tutto sotto gli occhi della Marina militare e dell’aviazione americana, presente in massa nella regione con la Settima flotta e portaerei come la US Reagan.

Alla regia militare si somma il martello economico che Pechino è pronto ad abbattere contro Taiwan per l’“affronto” della visita di Pelosi. Che può prendere la forma di un pressing economico contro il dollaro taiwanese e contro gli asset e gli investimenti dell’isola nella Cina continentale. Ma anche in un cambio della linea politica ufficiale del Partito comunista cinese, pronto ad affrontare il Congresso il prossimo autunno, o ancora nell’interruzione dell’accordo commerciale Ecfa in vigore tra Taipei e Pechino.

La furia cinese, però, promette di colpire anzitutto Washington DC. Atteso e considerato probabile uno strappo diplomatico contro “l’ingerenza” di Pelosi e il richiamo dell’ambasciatore negli Stati Uniti Quin Gang. Alla rottura potrebbe far seguito una nuova guerra a suon di sanzioni tra due superpotenze. Puntate contro l’export, gli asset e le compagnie americane da parte cinese. Mirate contro le istituzioni e le transazioni finanziarie, l’industria estrattiva e i settori inclusi nel piano “Made in China 2025” da parte americana.

La Casa Bianca di Joe Biden però non è l’unica pronta a rispondere a provocazioni o rappresaglie della Città Proibita. Alle spalle della Pelosi infatti c’è l’intero Congresso. Compatto, anzi unanime tra schieramenti opposti quando si tratta di colpire la Cina. Si è fatta lunga infatti la lista di decreti e atti firmati dal presidente che hanno messo nero su bianco il sostegno statunitense a Taiwan. Ognuno comporta un esborso di denaro considerevole.

Due miliardi di dollari annui per il “Taiwan deterrence act”, tre miliardi per l’“Arm Taiwan act”. È già attivo, inoltre, il “Taiwan invasion prevention act”, che in caso di sbarco cinese sull’isola permette al presidente di autorizzare l’uso della forza. E ancora, il “Taiwan partnership act” per rafforzare i legami della marina taiwanese con la Guardia nazionale americana; il “Taiwan representative office act” per dare alla rappresentanza taiwanese a Washington la denominazione di “ambasciata”, una promozione che sarebbe certo considerata un affronto dalla leadership cinese. Sull’invio di armi a Taiwan con una procedura semplificata, non dissimile da quella in vigore per sostenere la resistenza ucraina, interviene il “Taiwan Peace through strenght act”.

Se la Cina attacca, come reagisce il Congresso? Anche qui gli strumenti non mancano. A un blocco navale risponde con una valanga di sanzioni il “Deterring Communist Chinese Aggression Against Taiwan Through Financial Sanctions Act”. A fronte di un’azione “ostile”, invece, Capitol Hill è pronta ad attivare il “Taiwan policy act“: introdotto a metà luglio, prevede lo stanziamento di 4,5 miliardi di dollari in aiuti militari a Taipei nei quattro anni successivi.

Durissima la reazione in caso di un’invasione vera e propria. Scatterebbe il decreto Stand (Sanctions Targeting Aggressors of Neighboring Democracies) che porta la firma del senatore repubblicano dell’Alaska Dan Sullivan e prevede sanzioni senza precedenti contro il Partito comunista e le aziende cinesi negli Usa. Anche se in caso di un’azione militare, più delle sanzioni, potrebbero essere i fucili ad avere l’ultima parola.

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