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Un governo senza dimensione politica o una politica senza dimensione di governo costituiscono un fattore di stravolgimento della vita democratica. Sono i termini di una dialettica negativa che schiaccia la funzione della classe dirigente: più vale l’approccio di potere, più cresce la logica della semplificazione. Si perdono di vista i valori, nonostante la riserva etica di un pensiero democratico che ambisce a rappresentare l’aspetto nobile della vocazione popolare. In questa rincorsa tra tecnocrazia e demagogia sta il malessere della politica italiana.

In un recente convegno di studi, a Viterbo, abbiamo messo a fuoco l’iniziativa di De Gasperi culminante nella svolta storica delle elezioni del 18 aprile 1948. L’Italia ha imboccato d’allora la strada della sua rinascita, insediandosi nel giro di pochi anni ai vertici delle nazioni più industrializzate del mondo. Molte scelte impostate in quel periodo si sono rivelate essenziali per dare un’architettura di sistema al progresso del Paese. Anche la collocazione euro-atlantica si è dimostrata vincente, frutto di coraggiose intuizioni all’insegna dell’affidamento a nuove solidarietà di ordine sovranazionale. Oggi ne possiamo apprezzare il valore nel contesto di una crisi, europea e mondiale, che il neo-imperialismo di Mosca ha scatenato con la guerra in Ucraina.

Tutto questo ci riguarda da vicino. Nel dibattito politico odierno, evocativo di scenari improbabili, manca la percezione del crescente disorientamento della pubblica opinione. Quali sono, in concreto, le soluzioni da sottoporre nel 2023 al vaglio del corpo elettorale? È improvvido far credere che si possa giungere alla scadenza della legislatura senza prospettare un assetto futuro di governo. In proposito, vale la pena ricordare che sono stati gli errori compiuti nelle ultime tornate elettorali, prima nel 2013 e poi nel 2018, a provocare un’esplosione di contropolitica sotto la doppia sigla di populismo e sovranismo.

Oggi il problema politico, anche visibile a occhio nudo, sta nel prosieguo o nella interruzione della esperienza di governo che Draghi interpreta con riconosciuta autorevolezza. Si fa finta di non capire, come se la solidarietà attorno a lui possa ridursi a cosmesi di un conflitto irrimediabile, causa d’indebolimento a breve dell’azione ministeriale. Eppure Draghi, solo qualche mese fa, era stato bloccato sulla via del Quirinale perché ritenuto protagonista insostituibile della stagione politica attuale. Ora invece, guardando al 2023, non si dice come sarebbe possibile colmare il vuoto determinato dalla sua uscita di scena.

Il semplice ritorno all’Italia di prima, una volta archiviata la fase emergenziale, appare del tutto inverosimile. Non sta in piedi. Realismo vuole che si formi attorno a Draghi uno schieramento che assuma la responsabilità di preparare il Paese a un nuovo 18 aprile, inventando uno schema che all’occorrenza rimescoli le identità di partito, consacri l’ambizione di rendere coeso e forte uno schieramento riformatore, esalti uno sforzo di convergenza democratica proprio nel solco della lezione degasperiana. Sta qui, per parte nostra, il contributo dei democratici d’ispirazione cristiana: l’Italia deve consolidare l’opzione di una politica liberal-popolare che vinca la tentazione di un “andare oltre” che significa, per il suo tratto velleitario, il rischio concreto di un “andare indietro”: senza Draghi e senza un progetto politico, dunque senza un governo all’altezza dei problemi.

Non possiamo permettercelo.

Una scelta di coraggio per le elezioni 2023. Con la “garanzia” di Draghi

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L’Italia deve consolidare l’opzione di una politica liberal-popolare che vinca la tentazione di un “andare oltre” che significa, per il suo tratto velleitario, il rischio concreto di un “andare indietro”: senza Draghi e senza un progetto politico, dunque senza un governo all’altezza dei problemi. La riflessione di Giuseppe Fioroni e Lucio D’Ubaldo

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