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In un mio articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore a marzo del 2022, avevo evidenziato come la vera sfida geopolitica per l’Occidente non fosse unicamente quella di contenere la Russia, ma cercare di comprendere le logiche e le intenzioni di Putin — ovvero cercare di “penetrarne il cervello”. Una riflessione che si è dimostrata ancora più attuale alla luce dell’incontro del 15 agosto scorso ad Anchorage tra Donald Trump e Vladimir Putin.

Il summit consumatosi l’altro giorno tra Trump e Putin, tenutosi presso la Joint Base Elmendorf–Richardson in Alaska, è stato caratterizzato da un forte impatto simbolico: red carpet, flyovers militari e una scenografia studiata nel dettaglio. Tuttavia, non è emerso, almeno pubblicamente, alcun accordo concreto sulla pace o cessate il fuoco in Ucraina.

Nonostante entrambi i leader abbiano definito l’incontro “produttivo” o “progressista”, nessun passo concreto, di fatto, è stato compiuto. Putin ha certamente guadagnato in termini di immagine e legittimazione internazionale, mentre Trump ha spostato l’attenzione da meccanismi formali (cessate il fuoco) a un “accordo di pace diretto”, più generico e ambiguo.

In sintesi, la narrativa politica dettata al margine dell’evento, vede nella dichiarazione rilasciata dal Presidente statunitense una sorta di auspicio per una rapida conclusion del conflitto. “Il miglior modo per far finire la guerra è negoziare un accordo di pace, non un semplice cessate il fuoco” ha affermato Trump. Una svolta retorica che sembra più orientata a coprire posizioni di neutralità o ambiguità, piuttosto che a sostenere la sovranità ucraina.

Certamente chi ne esce trionfante è il presidente russo, che di fatto ha ottenuto una sorta di riabilitazione diplomatica sul suolo americano, senza dover cedere nulla sul terreno.

Ma il vero messaggio, seppur implicito, rimane uno, semplice e cristallino: cercare di comprendere il funzionamento del meccanismo psicologico che governa le decisioni di Putin, piuttosto che cercare di negoziare “alla cieca” con lui. È su questo concetto centrale, che deve giocarsi la trattativa dell’Occidente con la Russia, e probabilmente Trump lo ha compreso perfettamente.

Ciò che probabilmente è mancato ai paesi occidentali sul piano diplomatico, è stato proprio questo. Non basta limitarsi a discutere con l’avversario, bisogna imparare a qualificare e valutare le sue mosse strategiche, soprattutto quando la diplomazia non produce risultati visibili.

L’incontro tra Trump e Putin ha rivelato tre punti chiave:

– Putin, di fatto, mantiene il controllo dell’agenda (mostrandosi rispettato, evita concessioni reali);

– Trump cerca una via “pragmatica” ma ambigua (evita di spingere per un risultato concreto, lasciando spazio a rivendicazioni russe);

– L’Occidente resta in posizione passiva (manca una strategia forte che renda credibile il coinvolgimento dell’Ucraina e dell’Europa).

Da una parte, Trump e Putin, attori protagonisti assoluti in un teatro in cui si celebra un tête-à-tête carico di implicazioni simboliche, ma che di fatto sembra abbia prodotto una sorta di accordo di “ridefinizione dei confine geografici” tra i due paesi in guerra e che sarà sottoposto a breve a Zelenszky, d’altra assistiamo al “nulla” diplomatico dei paesi europei: nessun accordo, nessuna roadmap, nessun summit in programma. Questo paradosso conferma l’intuizione iniziale: nella politica internazionale, non basta la visibilità; è fondamentale decifrare le strategie profonde del potere, anche dietro l’apparenza più teatrale.

In conclusione, la posta in gioco è molto alta, e per certi versi invisibile. Se il summit di Anchorage non è stato un successo diplomatico — per l’Occidente — allora la vera posta in gioco resta frammentata: capire i silenzi, le omissioni, i gesti simbolici. Quello che si è visto è un avversario che parla pochissimo, ma comunica molto — e un Occidente che spesso reagisce senza ascoltare.

La domanda rimane: l’Occidente sarà in grado di entrare davvero nella mente di Putin prima che la sua diplomazia diventi solo un apparato di sorveglianza dell’immobilismo?

 

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Cercare di comprendere il funzionamento del meccanismo psicologico che governa le decisioni di Putin, piuttosto che cercare di negoziare “alla cieca” con lui. È su questo concetto centrale, che deve giocarsi la trattativa dell’Occidente con la Russia, e probabilmente Trump lo ha compreso perfettamente. L’analisi di Antonio Teti, professore dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara

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