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Su Formiche.net  abbiamo raccontato i grandi problemi di un’economia che appare vincente ma nasconde una serie di fragilità. Operazioni industriali disinvolte, una pressione soffocante del governo, la demolizione sistematica del comparto tech e l’agonia dei grandi colossi privati (l’ultimo, eclatante, caso è Fosun), soprattutto immobiliari, hanno prodotto una fuga di capitali senza precedenti nella storia dell’ex Celeste Impero.

E ora il pericolo, o meglio il terrore, viene dal bancomat. Quanto successo in queste ore è solo la punta dell’iceberg perché è l’intero sistema bancario a essere a rischio crollo. I correntisti di sei banche rurali della provincia di Anhui, allettati da tassi di interesse superiori alla media, hanno depositato in questi ultimi anni i risparmi di una vita presso gli istituti. Salvo poi accorgersi successivamente di non poter ritirare i loro fondi dopo la fuga del capo della casa madre del gruppo bancario, ora ricercato per reati finanziari.

Uno scandalo locale che è diventato un caso nazionale a livello politico a causa dell’uso improprio dell’applicazione di tracciamento Covid, utilizzata dalla polizia per mantenere sotto controllo la protesta dei risparmiatori imbufaliti per aver perduto, probabilmente, il denaro messo da parte per mantenere i propri figli. Alcuni video postati sui social hanno mostrato singoli manifestanti spinti addirittura dalle scale da agenti in borghese vestiti con semplici magliette bianche o nere. Qualcosa di ben lontano, ma non certo meno drammatico, dalle urla di Shanghai, ai tempi del lockdown di questa primavera, con milioni di cinesi murati vivi nelle proprie abitazioni.

Alla fine le autorità cinesi hanno ceduto alle proteste dei correntisti truffati i quali saranno risarciti per primi, poi ci saranno altri passaggi per quelli con depositi superiori a una certa soglia. A stabilirlo è stata la Commissione regolatoria delle banche e assicurazioni cinesi (Cbric), secondo quanto riferito da due comunicati dalle branche locali dell’autorità in Henan e per l’appunto Anhui.

Ora, andando oltre l’episodio di Anhui, sembra proprio che in Cina il sistema bancario si stia lentamente dissanguando. Lo dicono i numeri. Negli ultimi mesi, in particolare tra aprile e maggio, gli investitori stranieri hanno venduto le loro azioni e obbligazioni cinesi per un controvalore di oltre 17 miliardi di dollari, un massimo storico, secondo i dati dell’Istituto di Finanza Internazionale (Iif). Un sell-off, termine tecnico per descrivere un disimpegno azionario e obbligazionario su vasta scala, che segue quasi due anni consecutivi di deflussi netti di portafoglio dalla Cina, incluso il quarto trimestre del 2021, con un deficit del conto capitale e finanziario di 320,6 miliardi di dollari.

Secondo l’Ispi, l’Istituto di studi politici internazionale, poi, è l’obbligazionario che ha sofferto maggiormente: i dati del governo cinese mostrano infatti un ritiro record degli investitori stranieri pari a 5,5 miliardi di dollari di titoli di stato cinesi a febbraio, la più grande riduzione mensile mai registrata, secondo la China Central Depository and Clearing, seguiti un nuovo massimo di oltre 8 miliardi di dollari a marzo. Investitori in fuga vuol dire meno capitale nell’economia e dunque meno liquidità a disposizione delle banche. E se, come sta accadendo, sale la domanda di contante, magari per paura di nuovi lockdown, allora è un guaio.

Ci sono poi altri fattori che non giocano a favore della liquidità in banca. Le quotazioni in discesa dello yuan, l’inflazione e l’effetto dell’aumento dei tassi decisi dalla Fed. E poi, storicamente, tenere in banca i soldi non è remunerativo. A ciò bisogna aggiungere l’interruzione della catena dei pagamenti. Il barometro di Atradius, società che assicura i crediti all’export, sui primi due trimestri del 2022 rivela che un terzo delle aziende presenti in Cina è preoccupata per i ritardi nelle transazioni finanziarie che portano inevitabilmente sull’orlo della crisi di liquidità.

Occhio poi ai fattori geopolitici, alias guerra in Ucraina e annesse sanzioni dell’Occidente. Gli Stati Uniti sono sempre sul chi va là e in caso di appoggio abbastanza plateale della Cina alla Russia, potrebbero far scattare la tagliola su Pechino, con una serie di sanzioni dal sapore finanziario. Se così fosse, secondo S&P Global Ratings, le istituzioni cinesi con debito denominato in dollari andrebbero probabilmente in default.

“Sebbene tali sanzioni siano altamente improbabili, gli effetti potrebbero essere gravi”, si legge in un report di S&P. L’idea di sanzioni statunitensi alla Cina ha d’altronde iniziato a guadagnare credibilità dopo l’invasione dell’Ucraina. Al punto che gli istituti di credito cinesi potrebbero cadere in un default tecnico se sanzioni dirette e secondarie impedissero loro di effettuare pagamenti o trasferimenti, o di effettuare cambi con dollari. Un po’ come in Russia, adesso.

Corsa agli sportelli in Cina. Se il terrore viene dal bancomat

Il dramma di Anhui, con risparmiatori disperati per l’impossibilità di ritirare i propri fondi, è solo la punta dell’iceberg. Il sistema del credito cinese si sta lentamente dissanguando tra fughe di capitali, yuan debole e un debito corporate fuori controllo. E se arrivassero sanzioni dagli Usa in stile Russia…

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