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Tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 pareva il padrone dell’Italia con percentuali da capogiro nei sondaggi. Due anni e mezzo dopo è il paria che nessuno vuole incontrare, neppure i suoi fedelissimi. Matteo Salvini, leader (chissà per quanto ancora) della Lega pare durato lo spazio di un mattino, il tempo di una canzone per l’estate.

Ha fatto molti errori per arrivare qui, ma uno davvero principale: essersi accostato troppo al calore del fuoco russo, che gli ha sciolto la cera delle ali e lo ha fatto precipitare. La sua parabola è il ritorno del “fattore K” nella politica nostrana.

La Prima repubblica era dominata e condizionata dal fattore K, un veto informale ma sostanziale a governare per i partiti troppo vicini a Mosca, cioè per il Pci. A questo corrispondeva un blocco di fatto anche per il Msi, sospettato per essere troppo vicino al passato regime fascista. Dopo la fine della Guerra fredda ogni discriminante crollò. Il Pci cambiò nome ed ebbe la benedizione ad andare al governo. Lo stesso fece il Msi. Per 30 anni fu il “liberi tutti”, durato fondamentalmente fino all’inizio della invasione russa in Ucraina.

Da allora molti leader, sedotti dalle sirene moscovite, o semplicemente inconsci del grande cambiamento in corso, hanno appoggiato direttamente o indirettamente il presidente russo Vladimir Putin nella sua avventura. Esso ha spaccato la politica italiana e scosso gli equilibri del governo, minacciando obliquamente anche quelli della Nato. Ciò fino a quando Salvini ha annunciato in piena di guerra di volere andare a Mosca come sua iniziativa privata.

Certo anche durante la Guerra fredda esponenti del governo come il Dc Giorgio La Pira, cercavano di tendere la mano oltrecortina. Ma La Pira, diversamente da Salvini, non era sospettato di essere foraggiato da Mosca né si era mai espresso a favore del sistema sovietico. Salvini invece fino a ieri era un paladino dell’autoritarismo putiniano. Un suo viaggio a Mosca oggi, quando il suo partito sostiene il governo dell’euroatlantico Mario Draghi, quantomeno confonde le acque in giro per il mondo. Oppure si può configurare come un’avanzata politica della Russia in Italia.

Salvini non è solo. Anche il leader dei M5s Giuseppe Conte è almeno ambiguo verso Mosca, e soprattutto il capo di Forza Italia, Silvio Berlusconi ha difeso il suo amico Putin pochi giorni fa. Prese insieme queste formazioni sono oltre il 60% del parlamento italiano.

Ma in realtà la linea putiniana dei capi non è quella dei loro partiti. I parlamentari di Lega, M5s, FI non saranno atlantisti fino al midollo, ma nemmeno vogliono fare la guerra per Putin. Soprattutto non vogliono perdersi mesi di stipendio per andare a elezioni anticipate e rischiare di mandare l’Italia a carte 48. Questo di fatto isola i leader putiniani.

Salvini appare bruciato, al di là di ogni margine di salvezza. Non è chiaro cosa faranno Conte o Berlusconi, legati a Mosca non per ragioni ideali ma forse per più modesti interessi di bottega. Dietro la formazione filorussa d’Italia non c’è infatti il sogno di portare il socialismo reale nel Belpaese; si intravedono invece i fumi di un partito del gas, legato agli enormi affari dell’importazione degli idrocarburi moscoviti. Questi affari rischiano di volatilizzarsi se Roma diversifica i suoi rifornimenti da Mosca, o comincia farsi energia con altro che non venga dalla Russia.

È tornato quindi un importante nuovo fattore K nella politica italiana, determinato dalle scelte euroatlantiche o meno dei partiti. La discriminante giocò un ruolo dirimente nella prima guerra fredda, oggi non sarà probabilmente diverso. Ciò crea nuove dinamiche a destra e a sinistra.

A sinistra il Pd, già euroatlantico, architrave di governabilità, è senza rivali. Invece il M5s è davanti a un’alternativa – o va tutto con Draghi o si spacca, da una parte segue il neo barricadero Conte o invece si accoda all’ultimo euroatlantico Luigi Di Maio.

A destra il discorso è diverso. Lega e FI sono per loro vocazione euroatlantici, e i leader filorussi sembrano essere lì per caso. Il travaglio di questo passaggio non sarà facile e lascerà consensi per strada. Chi è nella posizione di avvantaggiarsi di tutto è Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che ha espresso un nuovo, più schietto afflato atlantista.

L’eredità è quella che è, color nerofumo tanto antipatica alla maggioranza degli italiani. L’apparenza talvolta non è delle più soavi, se si manifesta magari anche con il volto di Ignazio La Russa. Eppure anche don Ignazio deve essere un buon diavolo se FdI ormai è diventato erede unico del Dna discriminante del centro destra italiana dal dopoguerra – l’essere certamente filoamericano.

D’altro canto, gli elettori di Forza Italia e della Lega vogliono l’ordine costituito, il che comprende rispettare il quadro generale. Quindi in realtà FdI non ha alcun interesse a mantenere rapporti cordiali con FI e Lega ma viceversa ha interesse ha presentarsi diversamente per saccheggiare il loro elettorato.

Questo sta per creare dinamiche molto nuove e diverse nel panorama politico italiano, e pone dure alternative ai vari partiti: o si convertono o rimarranno al palo, come nella prima guerra fredda. Un po’ come accadde nel passaggio del governo del 1946 a quello del 1948. Nel ’46 si era tutti insieme, nel ’48 invece governò solo chi era contro Mosca.

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