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Mario Draghi ha voluto dire a chiare lettere di aver fatto meglio di Gentiloni e di Conte. Per uno abituato alla competizione internazionale ci si poteva aspettare un confronto più audace. In qualche modo ha dovuto ammettere che anche il Governo Renzi ha fatto meglio del suo, almeno in relazione alla pressione fiscale. Il premier ha voluto esibire i muscoli al Congresso della Cisl, con una promessa che si è rivelata assai modesta: “Prevediamo che la pressione fiscale quest’anno cali di 0,4 punti percentuali rispetto all’anno scorso, ed è la riduzione più consistente degli ultimi sei anni”. Quindi dal 2016 in poi nessuno meglio di lui.

Senza offesa per Gentiloni e Giuseppi forse è un po’ poco. Ma forse l’assise cislina non era il luogo migliore per esibirsi. Anche se, iniziando il suo discorso, Draghi ci ha tenuto a dire: “Condivido molto il titolo che avete scelto per il vostro Congresso. ‘Esserci per cambiare’ è una frase diretta, che racchiude anche il senso di questo governo. Siamo qui per fare quello che serve all’Italia, ai lavoratori, alle imprese – non per stare fermi”. Proposito nobile, risultati inadeguati.

Non solo per la parte fiscale. In attesa che a fine anno si possano davvero contabilizzare i “tagli” dello 0,4% – un successone – di certo la grande riforma del Fisco resta di là da venire. Il “grande accordo” raggiunto alla Camera sulla delega fiscale è partito già zoppo, per le contestazioni di Leu, che non potrà inficiare il risultato aritmetico del voto, ma certo aggiunge conferme alla debolezza di una maggioranza che più che per cambiare sembra essere disposta a tutto “per esserci”.

Nessuna vera blindatura dell’accordo, dopo otto mesi di inconcludente stazionamento della delega a Montecitorio. E se l’accordicchio (senza Leu) potrà sbloccare il percorso, sarà difficile che il Senato si accontenti di sottoscrivere le scelte della Camera. Il calendario è chiaro: senza un via libera definitivo entro l’estate, lo spazio per i decreti attuativi – che non potranno essere pochi per dare vita vera a tutta la delega – rischia di essere sconvolto dalle scadenze imposte dalla legge di Bilancio prima e dalla campagna elettorale per le politiche poi. Già, perché prima o poi si dovrà pur votare.

E da qui al voto il senso di immobilità rischia solo di essere più esplicito, nonostante le sollecitazioni della Commissione europea a dare seguito alle tante promesse di riforma inanellate dal governo Draghi al momento della stesura e dell’invio del Pnrr.

Sulla delega fiscale abbiamo detto. Rischia di essere un altro flop, come l’inconcludente riforma della Giustizia. E come è finita la storia del Ddl Concorrenza. Il nodo più difficile da sciogliere era quello delle licenze balneari. Com’è andata a finire? L’accordo tanto sbandierato non è stato altro che un rinvio. Come spiegato da vari partecipanti alla riunione “decisiva”, il testo finale rimanda ai decreti attuativi la definizione degli indennizzi, senza riferimenti all’avviamento dell’attività, al valore dei beni, a perizie e scritture contabili.

Secondo la bozza dell’accordo, continuano ad avere efficacia fino al 31 dicembre 2023 le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per l’esercizio delle attività turistico-ricreative e sportive. Le concessioni però potranno essere differite per il tempo strettamente necessario “e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2024”. In particolare, “in presenza di ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva entro il 31 dicembre 2023, connesse, a titolo esemplificativo, alla pendenza di un contenzioso o a difficoltà oggettive legate all’espletamento della procedura stessa – si legge nel testo – l’autorità competente, con atto motivato, può differire il termine di scadenza delle concessioni in essere per il tempo strettamente necessario alla conclusione della procedura e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2024. Fino a tale data l’occupazione dell’area demaniale da parte del concessionario uscente è comunque legittima”.

Insomma, palla lunga. Un lancio che supera l’appuntamento elettorale, facendo atterrare l’accordo in una “terra incognita”, dove non è lecito sapere né chi avrà più voti, né con quale conteggio si faranno le maggioranze (ritorna il proporzionale), né chi saranno i leader capaci di intestarsi l’ambizione del governo: Draghi in uscita, Salvini sfinito, Meloni senza alleati, Berlusconi troppo avanti negli anni, Letta non pervenuto.

In tutta questa infinita transizione da più di dieci anni la continuità del governo è stata assicurata dal Pd (tranne la breve pausa del governo gialloverde). E vedendone i risultati non è stata buona cosa. Si sa, la mancanza di competizione fa male anche alla politica. Nella prima Repubblica ci siamo spazientiti di fronte ai 40 anni di governo ininterrotto della Dc. La seconda Repubblica (tranne i break dei governi Berlusconi) è stata tutta a guida Pd (dall’Ulivo a Renzi). Se questa è la terza Repubblica c’è ancora il Pd, capace di allearsi anche con i “grillini” pur di non lasciare incustoditi i Palazzi, trasformando Mario Draghi in una riserva ormai inutile della Repubblica.

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