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Solo cinque anni fa in Leonardo si parlava di vendita di quella che una volta era OTO Melara; un settore della principale azienda della Difesa italiana, dedicato ad artiglierie e veicoli corazzati, ritenuto poco produttivo e senza futuro, tanto da monetizzarlo per rafforzare la presenza della stessa Leonardo nel settore dell’elettronica. Le poche voci contrarie erano tacciate come incapaci di vedere il futuro o, peggio ancora, ancorate ad una loro personale “comfort zone”.

Si, perché qualche voce contraria c’era, anche se mancavano ancora due anni all’invasione russa dell’Ucraina e quattro all’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, con la presa di coscienza da parte dell’Europa che bisognasse farsi carico della sicurezza del Continente. Erano le stesse voci che già allora, con una fastidiosa insistenza, chiedevano che Leonardo acquisisse Iveco Defence Vehicles, per dare vita ad una componente a vocazione terrestre dell’industria nazionale della Difesa.

È notizia di questi giorni che, finalmente, Leonardo ha acquisito IDV, peraltro ad un prezzo che solo due anni fa sarebbe stato giudicato esagerato. Lo ha fatto dopo aver stipulato una Joint Venture con la tedesca Rheinmetall per sostituire l’intero parco dei veicoli da combattimento corazzati dell’Esercito Italiano. Un programma, peraltro, annunciato dal Ministero della Difesa nel Documento Pluriennale Programmatico del 2020, proprio nello stesso periodo nel quale OTO Melara doveva essere venduta.

Oggi, grazie all’acquisizione di IDV e alla rivitalizzazione di OTO all’interno della JV con Rheinmetall, Leonardo si pone sul mercato internazionale come fornitore di veicoli da combattimento ruotati e cingolati, portando competenze sia sulla piattaforma che sul sistema di combattimento, dalla bocca da fuoco all’elettronica.

Verrebbe da dire, meglio tardi che mai; ma forse bisogna invece comprendere le ragioni della incapacità tutta italiana di non saper vedere il futuro e cogliere in anticipo le opportunità che possono presentarsi.

I segnali del concretarsi di una nuova fase geopolitica, a voler essere buoni, c’erano tutti almeno dal 2014, l’anno dell’invasione russa della Crimea e del Vertice Nato del Galles, con l’impegno a portare la spesa militare al 2% del Pil. In Europa, agli addetti ai lavori ed ai decisori politici appariva chiaro che si sarebbe rimesso mano alle componenti tradizionali e convenzionali degli strumenti militari, specie per le componenti terrestri, che più di altre avevano risentito degli effetti combinati delle riduzioni dei bilanci e della cosiddetta Guerra al Terrorismo, con il conseguente abbandono di interi segmenti di capacità operative.

In Italia no. Le voci dei Vertici militari, che pure si erano levate nelle sedi istituzionali, quali le Commissioni Difesa del Parlamento, erano messe in sordina, oppure derubricate come le richieste guerrafondaie dei soliti Generali.

La prima ragione di questo atteggiamento è l’idiosincrasia italiana per i temi della Difesa. Un rifiuto che ha radici storiche e politiche, a causa della tragica conclusione delle avventure militari del regime fascista e dello strano dualismo che, nel dopoguerra, ha visto l’Italia schierata nel blocco atlantico, pure in presenza del maggior Partito comunista ad ovest della cortina di ferro. In Italia, parlare di spesa militare porta problemi a qualunque schieramento politico, quale che sia. Si badi bene, “parlarne”, perché in silenzio, la spesa per l’acquisto di sistemi d’arma si può portare dai 5,6 miliardi del bilancio della Difesa del 2020 ai 12,4 del 2025, con un incremento del 117% in 5 anni. Invece, è bastato l’annuncio della Commissione europea di un piano di riarmo per scatenare le opposizioni al grido di “ospedali o cannoni?” e costringere il Governo a distinguo di difficile comprensione. C’è bisogno nel Paese di una cultura della Difesa! Già, ma chi si espone concretamente? Per ora, abbiamo appreso che, in sordina e nell’ultimo giorno utile, il Governo italiano ha aderito al fondo europeo Safe per sostenere parte dell’incremento della spesa militare.

La seconda ragione è la “prudenza”, chiamiamola così, dell’industria partecipata dallo Stato a fare investimenti in proprio, a scommettere sul futuro. Ricerca, innovazione e investimenti si fanno con i soldi pubblici e non con quelli degli azionisti. Per comprendere, basta guardare ai fatti; il KF41 Lynx ed il KF51 Panther, i veicoli corazzati di Rheinmetall che costituiscono la base per i nuovi mezzi dell’Esercito Italiano, vengono impostati rispettivamente negli anni 2014 e 2016, pure in mancanza di un requisito governativo, per iniziativa dell’Azienda tedesca. Da noi, come detto, nell’anno nel quale il Ministero della Difesa annuncia ufficialmente di voler ammodernare le proprie forze corazzate, nello stesso medesimo anno, Leonardo decide di vendere l’unica fabbrica che, nel dopoguerra, abbia prodotto carri armati in Italia. Nonostante il programma di ammodernamento abbia poi trovato menzione e sempre nuove risorse in tutti i successivi documenti programmatici del Ministero, si è dovuto attendere il 15 ottobre 2024 per veder nascere Leonardo Rheinmetall Military Vehicles e recuperare, in parte, il tempo perduto.

L’approccio italiano al mondo della Difesa, nel suo complesso, deve assolutamente cambiare, per non continuare ad inseguire gli eventi ed i nostri Partner politici ed economici; per non restare comprimari laddove dovremmo essere protagonisti.

Per ora, accontentiamoci del consolidamento di Leonardo nel comparto terrestre della Difesa e dell’adesione italiana al fondo Safe. Sono, comunque, due ottime notizie.

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