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235 morti, 7mila feriti, i quartieri attigui resi a lungo inagibili. L’esplosione che il 4 agosto 2020 ha distrutto il porto di Beirut, i suoi silos fondamentali per l’economia nazionale, gli attracchi e tutto il resto, può essere riassunta così? Forse no, perché se questa è una discreta fotografia dell’esito dell’improvvisa esplosione di migliaia di chili di nitrato d’ammonio illecitamente giunti e custoditi per anni con cura nel porto di Beirut, al tempo sotto il controllo ufficioso ma ben noto a tutti da parte di Hezbollah, trattandosi di un evento accaduto cinque anni fa, manca una parte fondamentale: come mai le indagini sono state completamente bloccate e il magistrato inquirente messo a lungo sotto scacco dai suoi superiori? Come mai solo con l’insediamento del nuovo governo lui ha potuto riprendere il suo lavoro? Come mai in Libano qualcuno ipotizza una nuova  amnistia, proprio come accadde dopo la guerra civile? Il bilancio di un tentativo di urbicidio cambia con gli anni, la storia di una delle più gigantesche esplosioni non nucleari della storia contemporanea non può essere fermata al momento in cui la polvere si posò definitivamente e i libanesi si guardarono attoniti attorno.

Visto che Beirut è adagiata ai piedi dei monti che la sovrastano, lungo il mare che crea la sua incantevole insenatura a poca distanza da quei monti improvvisi, in quel giorno molti vetri tremarono o andarono in mille pezzi anche nelle abitazioni che sorgono sulla parte di città che si inerpica sui primi rilievi montuosi. È difficile dire quanti “feriti non registrati” quell’evento abbia determinato. Più facile è ricostruire la storia del misterioso battello carico di esplosivo che, con ben altra destinazione, scoprì di appartenere a una compagnia fallita e decise – seguendo una rotta curiosa – di andare ad arrendersi proprio nel porto di Beirut, e chi decise di custodire con scrupolo il suo prezioso carico proprio nel porto commerciale, anni prima dell’evento. Il magistrato inquirente, Tarek Bitar, per quel poco che ha potuto investigare, ha potuto accertare che parte del nitrato d’ammonio depositato tra silos di grano e banchine di carico e scarico merci, era considerevolmente diminuito – per fortuna di Beirut – nel corso degli anni. Sono stati gli anni cruciali del conflitto siriano, nel quale Hezbollah intervenne con tutto il suo peso, prima dei russi, al fianco di Assad. Lui impiegò “l’arma segreta”, i famosi barili-bomba, che erano dei contenitori riempiti di detriti ed esplosivo e che venivano lanciati dal cielo sulle città in rivolta contro il regime: rozzi ma efficaci per devastare. Parte di quel nitrato di ammonio fu impiegato così? Le autorità portuali oltre a concedere la custodia illegale lasciarono Hezbollah attingere per anni al tesoro nascosto e portarne porzioni preziose in Siria?

Dire che è tutto sulle spalle di Hezbollah, che ormai era uno Stato che conteneva lo Stato libanese, non il contrario, e che questo partito-Stato si era impossessato della politica nazionale di difesa (e di offesa) è decisivo, ma non basta. Hezbollah nel corso degli anni non era più solo un partito, ma un sistema, nel quale avevano un ruolo i suoi alleati-sottoposti, indispensabili per coprire la trasformazione del partito in Stato. La presidenza di Michel Aoun (ovviamente maronita, come tutti i Presidenti libanesi) con il suo partito radicato nell’establishment, sembra proprio aver svolto questo ruolo di affiancamento; trasformare la triade decantata da Hezbollah, “armi, popolo, resistenza”, in ideologia nazionale. All’ombra di questo ci saranno state minacce, sono noti gli assassinii mirati, ma nessuno può non pensare anche a negoziaziazioni con altri pezzi della “casta libanese”. L’arresto dell’uomo che in quegli “anni-Hezbollah” come in quelli precedenti ha governato (per 30 anni consecutivi) la Banca del Libano, potrebbe indicare proprio questo. E l’esercito? I giornali libanesi si chiedono se alcuni esponenti  dei vecchi vertici militari (a partire dal generale Jean Kahwagi) possano essere tenuti fuori dal processo.

La questione “amnistia” potrebbe essere una pistola messa sul tavolo per negoziare sul disarmo completo ed effettivo di Hezbollah? Non più “armi, popolo, resistenza”, ma “armi che diventano illegali in cambio della quiete legale”.  Va detto però che finalmente alcune improvvise immunità garantite dai precedenti governi sono state rimosse e che i magistrati francesi sono giunti a Beirut per affiancare il magistrato inquirente, apparso per anni isolato nel suo lavoro. Ovviamente Hezbollah può far presente che se la magistratura ha convocato alti funzionari sciiti, lo stesso è accaduto per alti funzionari  di tutte le altri confessioni presenti in Libano. Questo sarà certamente vero, come è vero però che solo il responsabile della sicurezza di Hezbollah, Wafic Safa, nel 2021 fece irruzione negli uffici del magistrato inquirente, minacciandolo di rimozione.

In questo contesto la figura del nuovo premier, Nawaf Salam, un magistrato di chiara fama mondiale e della più alta formazione occidentale, spicca come un’enorme novità che cambia le carte in tavola. Così molti libanesi ritengono che occorra partire proprio da questa inchiesta per liberare le comunità libanesi dalla gabbia settaria, dall’ideologia criminale che ha trasformato il Paese in una santabarbara e in affari speculativi sottaciuti per acquietare la casta che ha trasformato Beirut in un campo minato di affarismo, milizianizzazione e onde speculative. Il nuovo governo, nato miracolosamente dallo chock del dopoguerra e che ha liberato i ministeri dalla morsa dei partiti-clientela, è l’indizio che sarebbe possibile.

Per questo c’è chi a Beirut pensa che la verità sul porto sia più importante delle armi stesse, per liberare Beirut dall’ideologia che ne ha consentito la custodia e l’uso criminale dentro e fuori il Paese. Quando il leader di Hezbollah, Naim Qassem, dice che le armi di Hezbollah servono a difendere il Libano, non nasconde soltanto il suo Libano meridionale in rovina, nasconde anche l’esplosione del porto, nasconde il tentato urbicidio di una città che rifiuta, nasconde i barili bomba che hanno devastato la Siria, nasconde il partito che con i suoi complici ha sostituito lo Stato.

È un sistema che la verità sul porto metterebbe a nudo, indispensabile agli occhi di alcuni libanesi per rifare lo Stato di cittadini sciiti, sunniti, drusi, cristiani e così via. Per chi la pensa così occorre dire ai libanesi come era stato ucciso il loro Stato, con quali connivenze e con quale lettura distorta del mondo e del Libano. Partirebbe di qui la ricostruzione morale della Beirut capitale mediterranea del libero pensiero arabo, città umiliata ma ancora araba, occidentalizzata, mediterranea, rimettendo mano al suo sistema confessionale, come richiesto espressamente dalla sua Costituzione e che oggi è appannaggio di poche famiglie. Questo nuovo Stato avrebbe davvero il monopolio della forza, il monopolio della politica nazionale di difesa, perché sarebbe una Stato sovrano, non una succursale dell’Iran, come è stato in passato, o di altre potenze. Ora occorre un nuovo porto, mediterraneo, cosmopolita, come il Libano.

 

 

Ora occorre un nuovo porto mediterraneo e cosmopolita, come il Libano. Beirut vista da Cristiano

A cinque anni dall’esplosione del porto della capitale del Libano, una delle più gigantesche deflagrazioni non nucleari della storia contemporanea, Riccardo Cristiano riflette sul bilancio di un tentativo di urbicidio che cambia con gli anni e che ha ancora molti interrogativi a cui dare risposta

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