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Domenica dodici giugno, primo pomeriggio, quattro eccellenti direttori dei più autorevoli quotidiani italiani, a conclusione di un confronto rigoroso e sereno al tempo stesso, sono stati gentilmente pressati dalla loro collega Lucia Annunziata a rispondere a una domanda con cui concludevano la discussione sulla lista degli amici italiani di Putin pubblicata dal Corriere della Sera. L’Annunziata chiedeva se, nel corso di una guerra, con un così alto potenziale esplosivo da mettere in pericolo la sicurezza nazionale, i servizi segreti avessero il dovere di investigare e di informare adeguatamente i decisori sulla compartecipazione di connazionali all’uso strategico della informazione e della disinformazione che, stante l’evoluzione delle tecnologie digitali, sono sempre più parte di strategie belliche.

La risposta non poteva che essere positiva anche perché, oggi, governare uno Stato e una società senza una struttura di servizi segreti all’altezza della sfida non è pensabile. Ma il problema non era quello del sì, ma piuttosto il modo e il come. E, soprattutto, l’efficacia delle indagini e il rigore nel trasferire i risultati ai responsabili della vita nazionale e all’opinione pubblica.

Oggi, in un mondo dove la circolazione delle informazioni non ne rende possibile la disamina, in quanto ci troviamo in presenza di un caos informativo che si autoalimenta in progressione geometrica generando incertezze nei risultati, un’investigazione accurata deve essere condotta con metodologie nuove.

Richiede un grande numero di operazioni e preparatissimi ricercatori che sappiano raccogliere informazioni di diversa natura, spesso inaccessibili. È necessario profilare i target per creare una mappatura iniziale delle loro connessioni sociali, le relazioni professionali e tutte le possibili altre evidenze che possono essere utili all’indagine.

Oggi il Paese deve essere consapevole che ciascun processo investigativo richiede un gran numero di risorse, siano esse fisiche, virtuali, tecniche e tecnologiche: un’intelligence innovativa fuori dagli schemi tradizionali in grado di dare un prodotto originale e innovativo.

Dobbiamo affrontare una guerra di disinformazione/informazione estremamente sofisticata che richiede agli uomini di governo, a quelli della finanza e dell’economia come pure ai giornalisti, e non solo, di sapere leggere – sempre meglio – l’informazione/disinformazione di guerra che alla fine viene quotidianamente propinata a quella che chiamiamo opinione pubblica.

Del dossier sugli amici di Putin, pubblicato dal Corriere della Sera, quello che infatti preoccupa, aldilà del suo autore, è la constatazione della superficialità della costruzione del dossier e dell’inconsistenza e dell’inutilità dei risultati conseguiti. Il dossier, in modo subdolo, spinge non solo l’opinione pubblica ma anche i responsabili delle vita del Paese sul terreno pericoloso e scivoloso della guerra della disinformazione.

I governi di un Paese sono sempre più tentati dall’influire sulla vita politica, e della stessa libertà di voto, utilizzando strumenti digitali, sempre più raffinati, di manipolazione delle informazioni. Non ci sono frontiere alla realtà virtuale e gli obiettivi e gli strumenti della guerra di disinformazione sono rivolti ad alterare le relazioni politiche, economiche e sociali tra gli Stati.

In questa guerra in Ucraina nessun Paese europeo e occidentale non sta, senza alcuna esitazione, con lo schieramento democratico. E ciascun cittadino occidentale ha cara la libertà di espressione politica e di partecipazione al confronto sulle scelte che i governi dei Paesi dell’Unione Europea stanno affrontando oggi in modo trasparente a Bruxelles e nelle loro capitali. Sono questi diritti politici nei quali rientra il diritto del giornalista di informare, secondo la sua etica professionale, i cittadini del suo Paese.

In questi tempi c’è sempre il dovere verso il proprio Paese di non mettere in pericolo la propria sicurezza nazionale. In questo momento in Italia dobbiamo prendere anche atto che accanto alla guerra che si combatte in Ucraina c’è questa della disinformazione che rischia di portarci in situazioni nuove e difficili da dominare perché non le conosciamo e non ne sappiamo l’origine.

In questa guerra l’insieme dei servizi militari e civili deve essere consapevole delle proprie responsabilità e avere una chiara la strategia di combattimento contro la guerra della disinformazione, che sarà una guerra senza fine. In questa battaglia non ci sono regole d’ingaggio o norme codificate, ma esistono quelle, anche non scritte, di un’etica professionale che non si riduce mai al silenzio o alla connivenza.

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