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Il Mediterraneo non è una periferia. Non è una cerniera passiva tra l’Europa e il resto del mondo, né un’area da presidiare a distanza con droni e satelliti. Il Mediterraneo è uno spazio vivo, mutevole, attraversato da rotte storiche e tensioni contemporanee, in cui si incrociano interessi economici, religiosi, strategici, climatici e umani. E soprattutto è un territorio oggi più conteso che mai. Conteso non soltanto dalle potenze regionali, ma anche da quelle globali: la Russia ha stabilito presenze navali permanenti in Siria ed Egitto, la Cina ha consolidato la sua influenza economica in tutto il Nordafrica e nel Sahel, la Turchia ha rafforzato le sue ambizioni navali e politiche da Tripoli a Mogadiscio, e gli Stati Uniti – pur restando una potenza globale – sembrano spesso incerti tra un ruolo di leadership attiva e un riflesso protezionista, tra strategie militari muscolari e una reale comprensione culturale dei contesti locali.

In questo scenario l’Italia è, e resta, il perno naturale per chiunque voglia giocare una partita seria nel Mediterraneo allargato. Non per ideologia o propaganda, ma per geografia, per storia e per cultura. Eppure, questa consapevolezza sembra mancare proprio a chi – come gli Stati Uniti – dichiara di voler rafforzare il fronte Sud dell’Occidente, ma continua a trattare gli alleati più vicini non come partner, bensì come clienti, o peggio, come concorrenti. Dazi su prodotti agroalimentari e manifatturieri, pressioni per l’acquisto di sistemi d’arma statunitensi a discapito delle industrie europee, imposizioni energetiche che ignorano le logiche infrastrutturali del continente: è difficile costruire un’alleanza autentica quando ogni interazione strategica è accompagnata da una stretta condizionale di natura economica.

L’Italia non può essere solo il “portavoce” delle esigenze americane in Europa, né la base logistica dell’Alleanza. L’Italia è un soggetto geopolitico a pieno titolo, con una visione mediterranea che non si limita alla sicurezza, ma abbraccia cultura, dialogo, diplomazia, cooperazione economica e sociale. La sua posizione è centrale non solo per la Nato, ma per tutta la stabilità dell’Europa meridionale, dell’Africa settentrionale, del Medio Oriente. La sua capacità di parlare con mondi diversi – da Tunisi al Cairo, da Tripoli a Beirut – non nasce dalla forza, ma dalla conoscenza, dalla continuità storica delle relazioni, dalla percezione che Roma non agisca come potenza coloniale, ma come interlocutore stabile e affidabile.

Ed è proprio qui che risiede la differenza profonda. Molto spesso gli Stati Uniti – pur armati di mezzi enormi e tecnologie avanzate – si trovano in difficoltà quando si tratta di leggere la complessità culturale dei Paesi mediterranei. Lo si è visto nelle missioni in Iraq e Afghanistan, ma anche nelle strategie verso il Nord Africa dopo le Primavere arabe: interventi rapidi, a volte impulsivi, con scarsa conoscenza del tessuto tribale, delle sensibilità religiose, dei retaggi storici. La logica del “regime change” ha prodotto effetti devastanti laddove mancava una strategia del giorno dopo. E la tendenza a privilegiare il linguaggio della forza – il cowboyismo strategico – ha indebolito la credibilità americana proprio in quei luoghi dove oggi servirebbe più diplomazia, più ascolto, più costruzione paziente di fiducia.

L’Italia, al contrario, ha sempre adottato un approccio più calibrato, spesso faticoso, ma più credibile. Non ha mai avuto un’ambizione imperialista nel Mediterraneo contemporaneo, né ha cercato di esportare modelli con la forza. Ha parlato la lingua della cooperazione, ha sostenuto missioni civili e militari equilibrate, ha coltivato relazioni con tutte le sponde del bacino, spesso agendo da stabilizzatore silenzioso dove altri preferivano il clamore dell’intervento.

Per questo oggi, più che mai, l’Italia deve essere riconosciuta come un asset strategico irrinunciabile per chiunque voglia preservare l’ordine internazionale liberale nel Mediterraneo. E se gli Stati Uniti vogliono davvero “vincere” nel Med, devono smettere di oscillare tra imposizione e disinteresse, e accettare che una partnership si costruisce sulla reciprocità, non sulla subordinazione. Il nodo non è solo militare – anche se la questione degli armamenti resta delicata – ma politico, industriale, culturale. È inconcepibile che, mentre si chiede all’Italia di incrementare la spesa per la difesa e di partecipare a tutte le missioni Nato, si impongano vincoli commerciali e si ignorino le eccellenze della sua industria duale, dal navale allo spazio, dal cyber all’aerospazio. Così come è miope vincolare l’approvvigionamento energetico europeo al solo gas americano, senza considerare le interconnessioni, i costi e le esigenze del continente.

Gli Stati Uniti devono capire che l’Italia non può essere ridotta a comprimario economico di una grande regia strategica americana, perché ne possiede già oggi alcune delle competenze più avanzate. Chiedere sacrifici e lealtà è legittimo, ma non lo è pretendere cessioni di sovranità economica in cambio di una protezione che ormai è bilaterale. La sicurezza non è una rendita, è una responsabilità comune. E lo stesso vale per l’approccio alla competizione globale: la risposta al caos internazionale non può essere solo più armi o più sanzioni, ma anche più relazioni, più reti, più strategie comuni.

Nel Mediterraneo, l’Italia è l’unico Paese che può parlare con tutti gli attori, dal mondo arabo all’Unione africana, da Israele alla Turchia. È l’unico attore europeo che ha una visione storica e sistemica del Mediterraneo allargato. È una nazione che ha già dimostrato, nel silenzio delle crisi dimenticate, di essere più utile come ponte che come bastione, più efficace come costruttore di stabilità che come portatore di ordini esterni.

Per questo serve un cambio di paradigma. Serve che gli Stati Uniti, se vogliono davvero tornare ad essere una grande potenza globale e non solo una potenza regionale egemone, riconoscano il valore di una partnership vera, matura, paritaria con l’Italia, e più in generale con l’Europa meridionale. Serve che si costruisca una nuova alleanza transatlantica sul Mediterraneo, fondata non solo sulla difesa, ma su energia, tecnologia, formazione, investimenti, diplomazia. Serve un’architettura nuova, non un aggiornamento di quella vecchia. Serve un’alleanza che valorizzi le eccellenze, che premi la conoscenza dei territori, che riconosca che la stabilità non si esporta: si costruisce insieme.

Il Mediterraneo non aspetta. Il tempo delle mezze strategie è finito. L’Italia ha già fatto la sua parte. Ora spetta agli Stati Uniti decidere se vogliono restare ancorati al riflesso di comando o abbracciare una vera leadership condivisa. Meno cowboy, più diplomazia. Meno diktat, più visione. Perché senza l’Italia – senza il suo ruolo, la sua voce, la sua credibilità – nessuna strategia nel Mediterraneo potrà durare. E senza Mediterraneo, anche l’Occidente è destinato a perdere sé stesso.

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Di Raffaele Volpi

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