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Attenzione a cercare “la pace a ogni costo” con Vladimir Putin, dice la prima ministra estone, Kaja Kallas, perché potrebbe essere interpretato dal russo come un segno di debolezza e farlo diventare ancora più aggressivo. D’altronde, ragiona Kallas in un’intervista concessa ad Axios, qualcosa di simile è già successo: “Abbiamo già commesso questo errore due volte: se c’è la pace in atto, allora dimentichiamoci di quello che è successo”, ha detto, riferendosi all’invasione della Georgia da parte di Putin nel 2008 e dell’Ucraina nel 2014.

La pressione per raggiungere un cessate il fuoco permetterebbe alla Russia di rivendicare la vittoria e mantenere i territori che ha occupato. In un tale scenario, ha sottolineato Kallas, l'”appetito” di Putin crescerebbe: “Se non viene punito per i crimini commessi, allora andrà avanti. Ci sarà una pausa di un anno, due anni e quando si rimetterà in sesto, tutto si ripeterà in modo molto più duro e severo”.

È un’idea molto chiara, un messaggio secco che esce da uno dei Paesi – i Baltici – che sentono la pressione russa più direttamente, sebbene la premier sottolinei di sentirsi al sicuro e protetta dalla Nato. È una percezione completamente diversa rispetta a quella del resto di Europa, simile a ciò che viene provato in Romania, Polonia o Slovacchia. Non a caso da Bratislava il primo ministro Eduard Heger ha annunciato venerdì 8 aprile l’invio in Ucraina del sistema S-300 – batterie anti-aeree di fabbricazione russa che serviranno a Kiev per proteggersi dagli attacchi di Mosca.

È una delle principali armi arrivate sul territorio ucraino come forma di sostegno dai Paesi Nato e Ue. “Possiamo dare più aiuti militari, possiamo dare più aiuti umanitari e anche isolare politicamente la Russia perché questo finisca”, dice Kallas, piuttosto che spingere il presidente Volodymyr Zelensky a cercare un cessate il fuoco a ogni costo.

Di questa necessità di agire per fermare “ora” la “macchina da guerra” del Cremlino – che non ha mai abbandonato la propria “mentalità imperialista” – Kallas ha parlato anche sull’Economist. Ed è di per sé interessante come due grandi media internazionali diano spazio alla politica estone e a queste sue posizioni tutt’altro che politicamente corrette.

In un op-ed uscito nei giorni sul settimanale di Londra, Kallas ha scritto che al Cremlino non importa il costo umano di quanto accade in Ucraina, e per questo Kiev deve essere aiutata a ripristinare la propria integrità territoriale e a espellere le forze straniere. Come? Fornendo armi alle forze armate ucraine. A questo, per Kallas, deve corrispondere un “disarmo economico” del Cremlino, prosciugando rapidamente ogni forma di entrata, inclusa quelle connesse al mondo dell’energia.

Sono scelte sofferte, ma, di nuovo, è questione di percezioni: in Estonia, come in Lituania e Lettonia, la guerra è sentita molto più che altrove e davanti al rischio che il conflitto (questo o uno in futuro) possa espandersi sul proprio territorio, questi Paesi sono portati a spingere sull’accelerazione contro Putin.

Secondo Kallas, fallire in questo adesso significa mettere a rischio la Nato stessa e la sua capacità di imprimere deterrenza. “Abbiamo promesso #NeverAgain ma dobbiamo agire ora se vogliamo davvero che questa sia l’ultima volta”, ha scritto su Twitter: “L’indifferenza è la madre di tutti i crimini”.

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