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Alla fine, la Germania del cancelliere uscente Olaf Scholz, la sua personale svolta l’ha avuta: buttare a mare due decenni e oltre di rigore e austerity, per spalancare le porte al deficit e a una manovra espansiva da mille miliardi, 500 dei quali destinati alle difesa. Peccato che il senso dei tedeschi per il debito si fermi qui. Perché quando c’è da condividerlo, il debito, allora le cosa cambiano. L’ultimo Consiglio europeo, che doveva portare il Vecchio continente a una seconda tornata di eurobond, architrave del piano di riarmo europeo, ne è la prova.

Niente da fare, per buona pace dell’ennesima invocazione di Mario Draghi, che continua a scorgere dietro l’emissione di titoli comunitari il sale dell’unione fiscale. Formiche.net ne ha parlato con Pietro Reichlin, economista e docente alla Luiss e direttore del centro di ricerca Center for Labor and Economic Growth, che il prossimo lunedì sarà nel panel dell’evento Luiss “Governare l’Europa e l’Italia all’epoca di Donald Trump”.

“Le difficoltà nel raggiungere l’emissione di debito comune sono di carattere politico. I Paesi del Nord Europa non vogliono questo tipo di condivisione perché imbarcarsi nel debito condiviso vuol dire sottoscrivere anche delle garanzie comuni: se uno Stato va in default, ipotesi peraltro remota va detto, allora ci sono degli effetti per tutti gli altri, perché bisogna garantire per quel dissesto”, premette Reichlin. “Prendiamo Paesi come l’Italia e la Grecia, che hanno un alto debito. Certamente sono Nazioni che hanno probabilità più alte di finire in default. E questo, agli occhi di molti governi del Nord, fa una certa paura, specialmente se si chiede loro di sottoscrivere garanzie a sostegno di quello stesso debito”.

Curioso, però, che la Germania apra la diga al deficit e poi si tiri indietro dinnanzi al debito comune, contrastando in un certo senso l’unione fiscale. “Bisogna chiarire un concetto. Berlino ha deciso di abbattere il proprio argine al debito per esigenze particolari, come la necessità di riarmarsi o di investire nelle infrastrutture, anche energetiche. Ma non sta chiedendo all’Europa di condividere questo sforzo, semplicemente porterà il suo deficit oltre l’80% del Pil, cosa che può benissimo fare. Non vedo una contraddizione al debito comune però, è nei diritti di Berlino aumentare il suo deficit senza mettere a repentaglio le sue finanze, così come lo ha fatto anche l’Italia, non trovo una correlazione se debbo essere sincero. Io rimango favorevole al debito comune, sia chiaro, ma non legherei le due cose, caso tedesco ed emissioni di titoli comunitari”, chiarisce l’economista.

“Poi, a dirla tutta, abbiamo protestato per anni perché la Germania era rigorista, non faceva la spesa pubblica e tutto il resto. Ora lo sta facendo e non ci va bene lo stesso. Certamente c’è un rischio in tutto questo, però”. Quale? “Se Berlino aumenta il debito, ci sarà un aumento dei tassi di interesse, il che per l’Italia non è una buona notizia, visti gli già alti costi del nostro debito, in termini di rendimenti sui titoli. Ogni anno l’Italia sborsa 98 miliardi di euro per ripagare gli interessi legati al proprio debito. Nonostante tutto, non capisco perché osteggiare il fatto che la Germania spenda più di prima”. Il ragionamento si sposta infine sui dazi. E qui Reichlin, fa una precisazione. “I dazi sono un bel problema, l’Italia è molto esposta con gli Stati Uniti, una riduzione dell’interscambio è un grosso guaio. Onestamente la trovo una pessima notizia”.

La Germania ha diritto a farsi il suo debito, ma gli eurobond restano una battaglia giusta. La versione di Reichlin

Per anni i Paesi mediterranei hanno criticato Berlino, accusandola di eccessivo rigore. Ora che invece il governo federale spende, ce la prendiamo con il mancato appoggio al debito comune. Che, comunque, resta una scelta sensata. L’Italia? Stia attenta ai tassi e, soprattutto, ai dazi. Colloquio con Pietro Reichlin, economista e docente alla Luiss e direttore del centro di ricerca Center for Labor and Economic Growth

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