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Sono settimane roventi per l’Unione europea, non solo per le temperature estive. Mentre il Consiglio europeo sonda l’accordo sul tetto al prezzo dell’energia per contenere l’onda d’urto del conflitto tra Russia e Ucraina, altre scelte economiche epocali sono al centro dell’agenda istituzionale.

Il Parlamento europeo ha votato lo scorso 8 giugno la riduzione delle emissioni di gas nocivi del 55% entro il 2030, da realizzare con la messa al bando di auto a benzina, GPL, metano e diesel a partire dal 2035. Siamo di fronte ad una transizione netta e radicale all’auto elettrica che trova pochi precedenti in altre aree del globo.

È ovvio che parliamo di un obiettivo largamente condiviso. La stragrande maggioranza degli europei è favorevole a misure per limitare le emissioni nocive, per fronteggiare il cambiamento climatico e per vivere in città più salubri.

Quello su cui mi interrogo è però quando, e soprattutto in che modo, arrivare al traguardo, tenuto conto che quello dell’auto è un comparto produttivo che, con il suo indotto, vale il 10% del PIL europeo e il 12% di quello italiano.

Di fronte ad una industria altamente integrata nell’area europea sono tanti gli aspetti da considerare.

In primo luogo il fattore tempo, che non può prescindere dalla considerazione di quanti anni sono necessari per riconvertire integralmente l’industria automobilistica europea. Il rischio è che una larga fetta di mercato venga consegnata ai produttori cinesi, che sull’auto elettrica sono posizionati meglio di quelli europei.

È un timore che potrebbe riguardarci già domani, perché la riforma indurrà sicuramente un cambiamento anticipato nelle scelte dei consumatori e vi è il serio pericolo che già nel breve periodo il mercato europeo non sia in grado di assorbire l’incrementata domanda di veicoli elettrici o sia meno competitivo e attraente dei competitor cinesi.

A questo rilievo si associa la preoccupazione per le ricadute occupazionali, perché costruire un’auto elettrica richiede il 30% di manodopera in meno rispetto a un’auto tradizionale e questo significa che in Italia si perderebbero quasi 60.000 posti di lavoro.

Certo, contestualmente si aprirebbero nuove opportunità di occupazione in altri settori dell’indotto, ma sappiamo bene che specialmente in Italia la curva dell’offerta di lavoro è estremamente rigida e che rispetto alla componentistica essenziale delle auto elettriche, come le batterie, l’Europa presenta una vulnerabilità di sistema.

Non va poi sottovalutata la questione dell’energia. Promuovere una transizione all’auto elettrica appare potenzialmente anti-storico in un momento che vede il prezzo dell’energia alle stelle. A questo si aggiunge il problema dei livelli di produzione – perché l’utilizzo comune di auto elettriche richiederebbe un surplus energetico da rinnovabili che oggi appare irrealizzabile – e della stessa capillarità della rete di infrastrutture di ricarica, che attualmente si rivela fortemente carente.

Se quindi una transizione secca all’auto elettrica rischia di trovare l’Europa – e l’Italia in particolare – impreparata, mi domando allora se non sarebbe stato possibile puntare su forme graduali e miste di transizione, come ha opportunamente sottolineato il Ministro Cingolani. Forme aperte all’uso di carburanti alternativi come il biometano o i cosiddetti elettro-carburanti sintetici, derivati da idrogeno e prodotti con energia elettrica rinnovabile.

E allora, a ben guardare, questa riforma ci insegna molto sul metodo che serve all’Europa. Una Europa all’avanguardia nella sostenibilità è sicuramente una prospettiva desiderabile, anche per gli effetti emulativi a livello internazionale. Ma questo significa fare scelte sostenibili sul piano ambientale e insieme su quello economico. Avere visione e difendere le proprie eccellenze. Diversamente, qualsiasi opzione è condannata a essere irrealizzabile o, peggio ancora, dannosa.

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