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Pensava, scriveva, pubblicava. Il suo era il ciclo compiuto, ininterrotto, del ragionamento politico. Un continuo rincorrere idee, proposte, suggestioni, documenti. E poi, ancora, un continuo disporre tutto quel materiale sulla tavolozza colorata delle sue riviste, dei suoi libri, dei suoi archivi. Dove prendeva forma, poco a poco, un’idea del paese e della sua storia. Giovanni Di Capua è stato per tutta la vita uno straordinario interprete della politica che si fa pensiero e dai suoi pensieri trae tutte quelle ragioni che spesso i suoi professionisti non riescono a cogliere.

Faticava senza stancarsi, pensava senza salire in cattedra, documentava le nostre debolezze senza sentirsi forte d’altro che della sua meticolosa e appassionata intelligenza. Lo conobbi che ero quasi bambino, era un amico di mio papà. Quando qualche anno dopo scoprì la mia curiosità per la politica si presentò a casa nostra, per la disperazione di mia mamma, con una quarantina di enormi volumoni rilegati: la collezione completa dell’agenzia Radar, la voce quotidiana della sinistra di base, quella di De Mita, Marcora, Galloni. Almeno quattro scaffali della libreria di famiglia.

Di lì in poi, ogni volta che scriveva un libro ne portava due copie, rigorosamente dedicate, una per mio papà e una per me. Scrivere un libro all’epoca a me sembrava un’impresa titanica (in effetti, la è). Così un giorno, mentre mi consegnava la sua biografia di Nicola Pistelli, gli chiesi un po’ bambinescamente quanto tempo ci avesse messo a scriverlo. Mi spiegò che erano stati molto amici: “Ci ho messo venti giorni, a buttarlo giù, ma forse sarebbe più giusto dirti che c’ho messo tutta la vita”.

Le sue passioni politiche erano intense, profonde, qualche volta radicali. Era democristiano fin nel midollo, ma proprio l’amore che portava al suo partito ne faceva il fustigatore di quanti a suo giudizio vi recavano danno. Ed erano fulmini e saette. Verso i suoi amici (De Mita, in primo luogo) era indulgente senza essere prono. Verso i suoi avversari era tagliente senza essere quasi mai irrispettoso. Quasi, appunto. Perché altre volte invece affondava il coltello della sua severità fino a rovistare impietosamente nelle ferite che la sua penna sapeva infliggere.

Negli anni settanta si convinse che il presidente della Repubblica, Saragat, stesse tramando un colpo di Stato. E così gli dedicò un libricino, “Il golpe”, edizioni Ebe, in cui rappresentava impietosamente le reazioni della classe dirigente del tempo mentre il Quirinale armeggiava con i cospiratori. Erano tutti sotto pseudonimo, alcuni più riconoscibili, altri meno. E tutti più o meno infilzati a fil di penna. Un gioco di fantasia portato all’estremo dietro cui si intravedeva ancora una volta quella passione civile che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.

Del potere a cui fu vicino avrebbe potuto forse approfittare. Ma non era il suo spirito. Poteva lasciarsi andare all’indignazione, qualche volta. All’amarezza, di tanto in tanto. Ma la sua curiosità politica era sempre tale da riuscire a fargli ritrovare il rispetto delle idee, anche di quelle che gli erano più lontane, e delle persone che si sforzavano di interpretarle. Accumulava carte su carte, volendo essere testimone di un tempo in cui la politica aveva bisogno di trovare nella densità dei ragionamenti e nello studio dei documenti il riscatto per certe sue inevitabili miserie.

Ecco, paternalisticamente, ai giovani verrebbe voglia di dire che nel passato della Repubblica c’erano soprattutto, nascoste nella penombra, persone così. Di cui magari le cronache hanno parlato troppo poco. Ma che invece, a modo loro, hanno fatto storia. Una storia di pensieri che la scomparsa di Giovanni rende oggi inevitabilmente un po’ amari. Ma a cui il tempo restituirà tutta la dolcezza civile che meritano.

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