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In meno di tre giorni gli spread sui titoli italiani sono passati da 250 a 200,8 punti base. Chiusura di venerdì. Quelli sui titoli greci da 298 a 228 punti base. Va bene il nervosismo nel giorno in cui la Russia di Putin, accampando scuse strampalate (il fermo degli impianti a causa delle sanzioni decise dall’Occidente) ha deciso di ridurre le forniture di gas, ma forse Carlo Messina, Ceo di Banca Intesa, aveva ragione da vendere quando denunciava l’accanimento speculativo nei confronti dei titoli italiani. Quello spread, che negli ultimi giorni abbiamo visto prendere la rincorsa, aveva e ha poco a che vedere con i fondamentali del Bel Paese. Molto invece con i movimenti erratici dell’hot money alla ricerca di facili profitti. In genere la speculazione non è lo sterco del demonio. Parte quando le condizioni oggettive del mercato lasciano intravedere situazioni di crisi. Nel 1992 la svalutazione della sterlina e della lira non fu il frutto della cattiveria di Soros. Ma la conseguenza delle modalità con cui si realizzò l’unificazione tedesca, che spazzò via le fragili strutture dello SME.

A volte, tuttavia, la speculazione prende delle cantonate. Nel qual caso per batterla basta ricorrere ad una semplice minaccia come venne in passato, con il “Whatever it takes” di Mario Draghi. E come sembra essersi già verificato in queste ultimissime ore. Nel momento in cui l’intenzione della Bce di ricorrere a misure tali da ridurre la frammentazione del mercato, ai fini della politica monetaria, ha preso quota e consistenza. Ovviamente non sono mancati commenti malevoli come quelli de Le Figaro (“la Bce vola in soccorso dell’Italia”), ma anche questo fa parte del gioco. L’importante è che alla fine gli obiettivi siano raggiunti.

Carlo Messina era convinto che non esistevano ragioni particolari per penalizzare l’Italia. A suo dire: “tutto quello che” era “sopra quota 150 “era “del tutto ingiustificato”. Valutazione confermata dallo stesso governatore della Banca d’Italia, nel suo intervento presso il Forum Analysis di Milano. “Per l’Italia, in particolare, le nostre analisi – ha precisato – indicano che un livello del differenziale tra i rendimenti dei titoli decennali di Italia e Germania inferiore a 150 punti base sarebbe giustificato dai fondamentali e comunque certamente non lo sarebbero livelli superiori ai 200 punti”. Più o meno stesse considerazioni per la Grecia e più in generale per la situazione complessiva dell’Eurozona.

Quali le ragioni? Per Carlo Messina la garanzia è offerta dal “taglia–debito”. Tesi sulla quale ha insistito da tempo. “Non ha senso – ha ribadito – tenere pubbliche le proprietà dello Stato” che possono dare reddito. Basterebbe creare un Fondo a cui cedere quelle proprietà e con il ricavato procedere all’abbattimento del debito pubblico. Che poi è la vera anomalia italiana, nel contesto europeo. Facendo pertanto il bilancio tra i possibili asset e i debiti che gravano sul bilancio, il netto potrebbe essere di gran lunga meno drammatico di quanto a prima vista potrebbe sembrare. Inutile aggiungere che di un simile progetto si parla da tempo. La novità dell’oggi è quella modernizzazione che dovrebbe derivare dal Pnrr. In grado di rendere possibile ciò che fino a ieri sembrava irrealizzabile.

Visco si muove invece su un terreno diverso, seppure coincidente con quello di Messina. Per il governatore “i segnali di miglioramento sono evidenti. Il rapporto fra il debito e il Pil è in una fase di discesa e, secondo le più recenti valutazioni della Commissione europea, continuerà a diminuire sia quest’anno sia il prossimo; grazie alla elevata vita media residua (vicina a otto anni), il tasso di interesse medio sui titoli di Stato resterà su valori più bassi del tasso di crescita nominale del Pil, mentre la spesa per interessi si manterrà su livelli moderati anche nei prossimi anni”. Inoltre “l’indebitamento delle famiglie è il più basso tra i principali Paesi dell’Unione europea e quello delle imprese è al di sotto della media; le condizioni del settore bancario sono migliorate in termini di ammontare di crediti deteriorati e redditività, mentre la capitalizzazione, pur leggermente scesa rispetto allo scorso anno, resta su valori elevati”.

Difficile, quindi, non cogliere i segnali positivi. Per quanto ci riguarda, vorremmo solo ricordare che nel 2021 (dati Eurostat) il tasso di crescita dell’Italia (6,6 %) è stato secondo solo a quello francese (6,8 %), ma ben più consistente di quello tedesco (2,9 %) e comunque maggiore di quello spagnolo (5,1 %). Siamo quindi passati dall’essere l’ultima ruota del carro ad un primato che si spera possa continuare. In questo ci conforta una particolare sottolineatura del governatore sulla quale abbiamo insistito da tempo. “La posizione netta sull’estero – ha ricordato – è positiva; i produttori italiani competono con successo sui mercati di sbocco”.

Quali le implicazioni? Sempre secondo Eurostat, lo scorso anno l’Italia ha potuto vantare crediti verso l’estero pari al 6,6 per cento del Pil, Francia e Spagna erano, invece, debitori netti per valori pari al 40,6 ed al 40 per cento del Pil. Una diversità che nasce dalla diversa forza dei rispettivi apparati economici. Nel 2011, l’anno della grande crisi, infatti, il debito dell’Italia nei confronti dell’estero era pari a circa il 25 per cento del Pil. Frutto di un cronico squilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Male storico italiano, che la nascita dell’euro aveva decisamente peggiorato. Nel 2002 quel deficit era stato di qualche decimale di punto, ma nel 2011 aveva raggiunto e superato il 3 per cento del Pil.

L’immagine plastica di un Paese che viveva oltre le proprie possibilità, ottenendo dall’estero le risorse necessarie per foraggiare una domanda interna superiore alle sue potenzialità produttive. In pochi anni, dal 2013 in poi, quest’immagine è stata cancellata. I debiti contratti in passato sono stati pagati. E da un paio d’anni l’Italia, seguendo la scia della Germania e dell’Olanda, è divenuto un Paese creditore netto. Un miracolo piccolo piccolo, se volete. Ma che a Paesi più blasonati, come abbiamo visto, non è riuscito.

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