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Ora occhi puntati su Hormuz. Ci sono appena 30 chilometri di larghezza che separano Bandar-e Abbas dalla penisola di Musandam, l’exclave omanita nel territorio emiratino che segna il gomito geomorfologico che strozza il Golfo Persico. È uno dei chokepoint più sensibili del mondo, perché è da lì che passa circa il 30% del petrolio mondiale commercializzato via mare e il 20% del Gnl. Di questi 20 milioni di barili di petrolio che ogni giorno escono da Hormuz, 5,5 sono diretti in Cina — e tra questi più o meno un milione di barili che Pechino traffica tramite triangolazioni con l’Iran, eludendo le sanzioni statunitensi. La Cina importa complessivamente una decina di milioni di barili di petrolio al giorno, dunque quello che passa per Hormuz ha un suo peso, e se l’Iran dovesse decidere di bloccarlo in rappresaglia ai pesanti bombardamenti americani subiti sui suoi siti nucleari questa notte, allora per Pechino potrebbe essere un problema.

Per anni, la Cina ha usato il suo rapporto con l’Iran per espandere la sua influenza in Medio Oriente, ottenendo al contempo greggio iraniano a buon mercato, e forniture del Golfo più agevoli. Teheran è un elemento di equilibrio per le relazioni cinesi nella regione. Per le grandi capitali sunnite, Pechino non è solo il più grande acquirente di petrolio del mondo, ma anche il più importante interlocutore della Repubblica islamica, rivale ideologico e geopolitico. Non è un caso se i sauditi hanno accettato di normalizzare le relazioni con gli iraniani proprio in occasione di un incontro, nel 2023, con la capitale cinese che ha fatto da palcoscenico per questo sensibile momento dei global affairs contemporanei.

Il presidente cinese Xi Jinping ha detto questa settimana che tutte le parti del conflitto tra Israele e Iran dovrebbero lavorare “il prima possibile per prevenire un’ulteriore escalation delle tensioni”, e chiesto agli Stati Uniti di non interferire con il loro “normale commercio” con l’Iran. Non si tratta solo delle sanzioni, ma di ciò che potrebbe accadere nel chokepoint petrolifero di Hormuz. La Cina non pubblica ufficialmente i volumi delle sue riserve strategiche di petrolio. Ma Michal Meidan, capo della ricerca sulla Cina presso l’Oxford Institute of Energy Studies, stima con il Financial Times che in tutti i tipi di stoccaggio, ci sono circa 90-100 giorni di copertura nel caso in cui i flussi nel paese siano limitati. Non solo petrolio, però. Gli analisti di S&P Global notano che oltre il 25% del gas naturale liquefatto importato dalla Cina l’anno scorso proveniva dal Qatar e dagli Emirati Arabi Uniti.

La crisi militare Iran-Israele (e Usa) arriva in un momento in cui il leader cinese, Xi Jinping, ha spinto per un cambiamento profondo nel mix energetico del paese. Ora la Cina sta lavorando alacremente per rafforzare la sua indipendenza energetica, con una transizione che alla fine richiede un massiccio aumento delle energie rinnovabili e l’elettrificazione della base di trasporto e produzione del paese. Le produzioni dalle rinnovabili sono quasi raddoppiate nell’ultimo decennio, ma il fossile è ancora fondamentale. Le relazioni con il Golfo si basano su questo, così come parte del rapporto con la Russia, diventata dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina il primo fornitore cinese — sia per le scontistiche applicate a Pechino, sia come sostegno indiretto fornito al partner anti-occidentale, qualcosa di simile a ciò che accade con l’Iran.

Insieme a questo interesse economico e pragmatico, c’è una serie di dinamiche di politica internazionale e narrazioni strategiche che porta la Cina ad avere una posizione di estremo controllo su quanto sta accadendo. Su Indo-Pacific Salad di questa settimana l’abbiamo definita “neutralità pro-iraniana”, simile a quella “pro-russa” nel dossier ucraino e quella “pro-palestinese” su Gaza. Tuvia Gering, che è tra i massimi esperti al mondo dei rapporti tra Cina e Israele, ha evidenziato che “la guerra Iran-Israele ha indurito la posizione della Cina nei confronti di Israele, soprattutto retoricamente, e comunque all’interno di un quadro cauto”. Il ministro degli Esteri Wang Yi, che è anche capo della diplomazia del Partito, ha condannato gli attacchi di Israele come “violazioni della sovranità dell’Iran” e ha sottolineato che “la forza non può portare una pace duratura” in Medio Oriente, esortando però entrambe le parti a “risolvere le differenze attraverso il dialogo”.

“Tuttavia, questa reazione rimane misurata rispetto alle critiche più aspre di Pechino dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e i precedenti scontri tra Iran e Israele”, dice Gering. La ragione è che “strategicamente, la Cina rimane in modalità di attesa, cercando soprattutto di proteggere le sue risorse regionali, la sicurezza energetica e i cittadini. L’Iran è un bastione anti-occidentale nella regione che mantiene gli Stati Uniti allungati su tre fronti (Ucraina, MENA e Indo-Pacifico). Essere una fonte di petrolio scontato contro le sanzioni statunitensi è un vantaggio. La distensione Iran-Saudita, mediata dalla Cina, ha significato l’importanza regionale di Pechino e, ai loro occhi, ha contribuito notevolmente all’equilibrio regionale tra questi vecchi rivali”.

Eppure, sui social media e tra gli esperti locali, il sentimento della Cina è più complesso: “I principali studiosi cinesi, nonostante la mancanza di affinità per Israele, evidenziano apertamente le debolezze dell’Iran contro la superiorità di Israele, criticando la ‘frammentazione interna’ e le ‘flessibilità strutturali’ dell’Iran, attribuendo i suoi fallimenti strategici alla corruzione e alla cattiva allocazione delle risorse”. In definitiva, la posizione della Cina nei confronti di Israele dipenderà dall’esito della guerra? “È così. “Se Israele emerge rafforzato a livello regionale e mantiene una forte partnership con gli Stati Uniti, il suo valore agli occhi della Cina potrebbe aumentare. Al contrario, il conflitto prolungato e il contraccolpo regionale contro Israele possono spingere la Cina a prendere le distanze retoricamente e rafforzare una posizione cauta e pragmatica per evitare un coinvolgimento più profondo”.

Nel 2021, Pechino ha firmato un programma di cooperazione di 25 anni con Teheran. L’Iran si è anche unito all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) guidata dalla Cina nel 2023, parte degli sforzi della Cina per posizionarsi come potenza responsabile e offrire alle economie in via di sviluppo un’alternativa alle istituzioni globali guidate dagli Stati Uniti. La Sco è stata usata dalla Cina per dare supporto multilaterale all’Iran, condannando Israele, suscitando il disappunto dell’India — partner, sempre meno a proprio agio, del sistema securitario regionale troppo legato a Pechino.

Perché ora gli occhi (anche di Pechino) sono puntati su Hormuz

La Cina ha forti interessi legati a quanto sta succedendo tra Iran e Israele: c’è il petrolio (e il gnl) che passa da Hormuz, ma anche la narrazione strategica anti-occidentale da cui nasce una “neutralità pro-iraniana”. Secondo Gering (Inss/Acus), Pechino sta valutando gli equilibri di forza, a maggior ragione dopo i bombardamenti Usa

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