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“Non bisogna guardare molto lontano per capire, al giorno d’oggi e nell’attuale epoca della geopolitica, quanto sia importante avere i giusti canali di comunicazione aperti”. È sintetico quanto basta Alan Davidson, Assistant Secretary del Commerce for Communications and Information, che ad Axios lascia trapelare tutta la sua preoccupazione per la prossima, ennesima partita da vincere tra Stati Uniti e Russia. In ballo questa volta c’è la guida dell’International Telecommunication Union (ITU), l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Da una parte l’americana Doreen Bogdan-Martin, da trent’anni all’ITU dove attualmente è direttrice del Telecommunication Bureau, dall’altra il russo Rashid Ismailov, vice ministro delle Telecomunicazioni e delle Comunicazioni di massa a Mosca.

Da entrambe le parti la campagna elettorale è stata presa molto seriamente, dato che a scontrarsi sono due visioni diametralmente opposte del modo di intendere la libertà di connettersi. Per tale motivo, la presidente della Federal Communications Commission, Jessica Rosenworcel, si è incontrata con le delegazioni europea, asiatica e latino americana. Obiettivo, garantirsi voti per la propria candidata alla votazione di questo autunno. Si terrà a Bucarest, alla Conferenza plenipotenziaria dell’ITU, dove si riuniranno i 193 Paesi membri, ciascuno dei quali avrà diritto a un voto (segreto). Se dovesse vincere, Bogdan-Martin non solo sarebbe la prima donna a ricoprire questa carica, ma anche la prima statunitense da settant’anni a questa parte.

Ma si va oltre questi aspetti, perché in gioco c’è molto di più. “Siamo profondamente preoccupati della direzione in cui l’ITU potrebbe muoversi”, ha dichiarato non nascondendo la paura che una vittoria del suo avversario potrebbe significare l’imposizione degli standard autoritari che la Russia utilizza in patria per il web. Senza dimenticarsi della Cina. Anche perché Ismailov ha un passato legato a Huawei, di cui è stato Vice presidente per i servizi, gli appalti e le consegne dell’area russa, che comprende anche Ucraina, Bielorussia e Armenia.

I timori statunitensi partono da lontano, più precisamente nel 2012 quando Russia, Cina, Arabia Saudita, Algeria, Sudan ed Emirati Arabi Uniti avevano avanzato la proposta di regolamentare il cyberspazio con nuovi poteri riscrivendo un trattato.  In sostanza, volevano estendere i poteri in mano all’ITU per governare meglio Internet. Gli alleati di Stati Uniti ed Europa, come Giappone e Australia, volevano invece rispettare la natura del trattato e applicarlo solo alle telecomunicazioni tradizionali. Il nocciolo della questione posta da Mosca e Pechino, seguite poi dalle altre, era pertanto quello di armonizzare una collaborazione tra Stati autoritari sul controllo di Internet.

La corsa alla presidenza assume un significato ancor più importante proprio per il momento geopolitico di cui parlava Davidson. Il drammatico prezzo che si sta pagando con la guerra in Ucraina non è solo in termini di vite umane o di conseguenze economiche, ma anche comunicativo. Viene dimostrato con ancor più evidenza il ruolo di Internet in questi contesti. Come scrivere Masha Gessen sul New Yorker, ad esempio, nelle informazioni che vengono rilanciate dai canali tv e web russi non c’è spazio per parole come “guerra” o “invasione”, tutt’al più si tratta di “un’invasione speciale”. TV Rain e Novaya Gazeta – la rivista curata dal premio Nobel Dmitry Muratov e che ospitava gli articoli critici nei confronti del Cremlino e dell’esercito di Anna Stepanovna Politkovskaja, assassinata con quattro colpi di pistola – sono state minacciate di multe e blocchi se continuavano a parlare della guerra in corso come una vera guerra.

La stretta in Russia ha riguardato anche la Bbc, Meduza, Deutsche Welle e il sito web nato negli Usa ma in lingua russa Radio Free Europe/Radio Liberty. La repressione sui media indipendenti, attuata da Roskomnadzor, l’agenzia russa che gestisce le comunicazioni su input del Cremlino, ha l’unico scopo di bloccare le informazioni scomode a Mosca: selezionando le notizie dal fronte può in qualche modo abbindolare il popolo – ma gli oltre settemila arrestati (almeno nel momento in cui si scrive) in nome della pace lasciano intendere quanto sia difficile.

Questa visione “incoraggia i governi ad avere un maggiore controllo su chi è autorizzato ad utilizzare Internet, come è consentito farlo e se deve esserci o meno libero flusso di informazioni”, ha dichiarato l’ex ambasciatore per la politica delle comunicazioni internazionali, David Gross. Un approccio completamente diverso da quello bottom-up delle società democratiche, fondato appunto dal basso e regolato da misure frutto della collaborazione e del lavoro di gruppi tech quanto della società civile.

Se si guarda al programma dei due candidati, i punti chiavi di Doreen Bogdan-Martin e di Ismailov sono molto simili, “puntare in alto per ottenere una connettività digitale universale, che sia sicura, inclusiva e accessibile” e colmare i divari digitali” così da “garantire a tutti l’accesso universale a banda larga”. Da vedere, piuttosto, come verranno applicati e in che contesto.

In bilico sembrerebbe dunque esserci il principio dell’ITU, quello di promuovere la cooperazione degli Stati che ne fanno parte, dare una mano allo sviluppo delle reti di comunicazione dei Paesi emergenti e cercare di trovare un’armonia tra le diverse leggi nazionali. Che, come scritto, appaiono molto diverse se si guarda da una parte o dall’altra: l’elezione in autunno ci dirà quale strada è stata intrapresa.

La corsa di Usa e Russia per l'ITU deciderà il futuro di Internet

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