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Mentre il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, incontra l’omologo russo, Sergey Lavrov, a Ginevra, a Mosca la Duma inizia a muoversi per il riconoscimento delle repubbliche autoproclamate di Lugansk e Donetsk, che sono le due aree del Donbas in cui dal 2014 si combatte la guerra separatista portata avanti dai ribelli filorussi e scaturita contemporaneamente all’annessione delle Crimea da parte della Russia. Un voto è stato annunciato per la prossima settimana dal presidente della Camera bassa del parlamento russo, Vjacheslav Volodin, sul proprio canale Telegram.

La proposta è stata avanzata dal Partito Comunista (Kprf) che intende inviare un appello formale al presidente Vladimir Putin di cui teoricamente il Kprf rappresenta l’opposizione. I legislatori comunisti sottolineano il coinvolgimento della Russia nella “soluzione pacifica” del conflitto in Ucraina orientale, così come la fornitura da parte del paese di “aiuti umanitari” alle repubbliche autoproclamate dal 2014. Gli autori del progetto di appello sostengono anche che negli ultimi anni, “organismi democratici e governi con tutti gli attributi del potere legittimo sono stati costruiti” in queste regioni secessioniste. Stante questo, il Cremlino dovrebbe “considerare la questione del riconoscimento” delle due repubbliche “come stati autonomi, sovrani e indipendenti”.

Il riconoscimento, sostengono, è “ragionevole e moralmente giustificato”, e creerà le basi per assicurare garanzie di sicurezza e proteggere le popolazioni locali dalle minacce esterne. Queste attività sono principalmente orientate agli obiettivi tattici a breve termine della politica generale russa. Ossia: provocare all’interno dell’Ucraina la destabilizzazione del dibatti pubblico attraverso un confronto bilaterale che potrebbe in parte offuscare il fatto dell’aggressione unilaterale della Russia; incoraggiare le autorità di Lugansk e Donetsk a rifiutare le offerte ucraine e internazionali, massimizzando così la dipendenza di queste autorità da Mosca e approfondendo il divario tra loro e il governo centrale; fornire al Cremlino un argomento politico come pretesto per eventuali interventi ibridi a protezione di quelle aree – come successo con la Crimea.

Il tema di fondo non è tanto un’invasione in stile Risiko, ma la destabilizzazione dell’Ucraina dall’interno. Misure attive di vario genere, dagli attacchi cyber alla guerra informativa, pressioni psicologiche sia attraverso i movimenti militari che tramite questi passaggi politici come i riconoscimenti delle repubbliche autoproclamate sono già in corso contro Kiev. Il fine è produrre la divisione della collettività ucraina, in modo da poter riproporre nel corso dei prossimi passaggi istituzionali anche in quel paese modelli sperimentati altrove – modelli a maggiore (fosse possibile a totale) controllo russo. Qui si snoda la questione strategica.

Quando Joe Biden ha parlato in una recente conferenza stampa di “minor incursions” come fossero quasi accettabili, o meglio oggetto di una ritorsione minore, ha quasi sdoganato la questione. Per questo il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha reagito tanto duramente. “Vogliamo ricordare alle grandi potenze che non esistono piccole incursioni e piccole nazioni”, ha twittato il capo di stato di Kiev: “Così come non ci sono piccole vittime e poco dolore per la perdita dei propri cari. Lo dico da Presidente di una grande potenza”. Intanto però gli Stati Uniti hanno messo in funzioni i piani standard preparati per un’eventuale evacuazione dell’ambasciata di Kiev – lo stesso hanno fatto il Canada e il Regno Unito, che hanno già inviato nel paese team di forze speciali.

Putin punta a un’accettazione internazionale de facto (impossibile de iure) della sovranità di quei territori, in modo da poterci mettere sopra definitivamente l’impronta russa: stati-non-stato in grado di costruirsi relazioni internazionali come protettorati di Mosca, relazioni che ne darebbero riconoscimento informale ma effettivo. Da questo passa la possibilità di creare una destabilizzazione interna in Ucraina, processo già in atto e che (strategicamente) dovrebbe portare allo sfiancamento di Kiev – e di certo non potrà portare Kiev dentro la Nato.

Anche secondo quest’ottica quelle repubbliche autoproclamate sono state spinte a iniziare l’edificazione di rapporti diplomatici. E si ricorderà che questi sono passati anche dall’Italia: a Torino e a Verona sono stati aperti dei centri di rappresentanza dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, due dei quattro attivi in Europa – gli altri sono in Finlandia e Grecia, mentre nel 2017 è stato chiuso quello di Ostrava in Repubblica Ceca e lo scorso anno quello di Marsiglia).

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