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Da alcuni anni sta passando l’idea di una finta posizione democratica circa la fede. Quella di non manifestare il proprio credo e le proprie radici culturali in pubblico, per non offendere chi non le conosce, chi non le ri-conosce, chi proviene da altre culture. Il Natale dei cristiani è quell’evento storico e di fede che più rischia l’oscuramento.

Si è cominciato sul piano commerciale decenni fa, trasformando la grotta di Betlemme in lussuosi negozi anni Ottanta e poi, con il nuovo millennio, in Centri commerciali super tecnologici, strabordanti di oggetti e brilluccicamenti, dai quali la mirra è scomparsa. L’oro e l’argento, da simboli, sono diventati protagonisti della nostra vita quotidiana, per il salariato e il borghesone. Dalle scarpe da 700 euro per l’adolescente di periferia “drogato dal benessere” (direbbe Pier Paolo Pasolini), al collier, del valore di almeno un box auto, per la neo-dottoressa dei “quartieri alti” (direbbe Ercole Patti).

Simultaneamente, vi è stata una sotterranea “riforma” linguistica non dichiarata ma, noterebbe Roman Jakobson, condotta sull’asse pragmatico. Ad esempio, i due costrutti linguistici beneaugurali “Buone feste” e “Buon Natale”, che formavano una sorta di endìadi, ora sono separati. “Buone Feste” sta felicemente da solo: si vergogna, in un certo senso, di uscire dalla bocca del neo-intellettuale insieme a “Buon Natale”.

Recentemente, il Manuale per la Comunicazione della Commissione europea ha proposto, in linea con la cancel culture, di evitare nomi quali “Maria” e “Giovanni”, legati ad una determinata tradizione, inclusa quella cristiana, ma anche di sopprimere la parola “Natale”. Davanti a un coro di proteste, il divieto è stato momentaneamente sospeso.

Questa lavatrice linguistica conferma come vi sia un concreto disegno di vietare la manifestazione del proprio credo in pubblico appellandosi allo pseudo diritto “di libertà dalle religioni”, autonomia già garantita, nei regimi democratici, dalle leggi vigenti. Padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, avverte, giustamente, come da anni è in atto un chiaro disegno per scristianizzare l’Occidente, abbattere i suoi millenari principi morali, per poter meglio gestirlo economicamente.

“Buone feste” è la scenografia gioiosamente dominante nel periodo natalizio. Zeppo e traboccante di lucine arcobaleno e lampeggianti, tale augurio, ti dà l’illusione di un mondo bello e colorato, in cui tutti i bambini del pianeta sono un’unica famiglia, tranne uno. Quello della grotta di Betlemme. Ormai sta passando l’idea che quel Bambinello, non solo non è il figlio di Dio, ma che quei due genitori, poveri, Maria e Giuseppe, accanto all’asinello e al bue, non sono neanche un fatto storico, ma una fanfaluca. Per il mondo del commercio la storiella di Betlemme è meno credibile e redditizia del vecchietto, baffi e barba bianchi, che scende con la slitta piena di regali dalla Lapponia.

La vita è meravigliosa

Nel 1946, con le ceneri ancora fumanti di un conflitto mondiale che causò circa 70 milioni di morti, persino Hollywood, quasi sempre restia nel prendere posizioni religiose, salutò come capolavoro La vita è meravigliosa (cinque candidature all’Oscar e un Golden Globe), dell’italo-americano Frank Capra.

Era la storia di un uomo, George Baily (James Stewart: la migliore performance della carriera, insieme a quelle hitchcockiane di La finestra sul cortile, L’uomo che sapeva troppo e Vertigo), che sta per suicidarsi. Intende gettarsi, da un ponte, in un fiume, per un errore finanziario non dipendente da lui. Siamo nella gelida e nevosa sera di un 24 dicembre. La moglie e i bambini lo aspettano per cena. Egli tarda. Tutti si preoccupano. Un angelo, di “seconda categoria”, Clarence, viene mandato giù dal cielo, per salvarlo. Nonostante sia stato salvato George si lamenta e confessa a Clarence che avrebbe voluto non nascere. Clarence, allora, gli fa vedere come la sua vita sia stata preziosa, e, se non fosse mai nato, tanti avrebbero sofferto per la mancanza delle sue buone azioni. Qualcuno, il suo fratellino, che George salvò dalle acque, sarebbe morto annegato; la sua anziana madre sola e malandata; sua moglie vecchia e nubile, senza figli.

La vita à meravigliosa (da un racconto di Philip Van Doren Stem), sceneggiato da una squadra di esperti autori, tra i quali Albert Hackett e Frances Goodrich, perfezionato dall’intuito da narratore di razza quale era lo stesso Frank Capra, era un terso inno alla vita che non va mai respinta. Sarebbe diventato una pietra miliare del cristianesimo al cinema. Il “film di Natale” per antonomasia.

Quell’inno alla vita di Capra rimandava, simbolicamente, per l’appunto, anche a un’altra vita chiamata alla luce, la notte del 24 dicembre, al tempo di Erode, in Betlemme. Quel Bambinello venuto al mondo per noi, per salvarci dai cattivi pensieri e dalle brutte azioni, come il suicidio.

Quel povero infante, crescendo, non sarà solo un ottimo predicatore, un saggio profeta, un “uomo buono come lo fu Socrate, che al posto della cicuta trovò la croce” (spesso questo è il medaglione critico di docenti cui è stata affidata, ope legis, una cattedra di filosofia). Gesù, fu ed è, in quanto risorto e asceso al cielo, qualcosa di più. È il figlio di Dio fattosi uomo, “Verbum caro factum est”. Ecco perché ogni anno facciamo il presepe. E poi a mezzanotte del 24 dicembre andiamo a messa, ricordando la Sua venuta in questo mondo. E perché in quella notte ci salutiamo dicendoci “Buon Natale!”

Hanno ucciso "Buon Natale". Scrive Ciccotti

Sempre più negli auguri e nella pubblicità si omette “Buon Natale” per non offendere i non cristiani. In questo progetto di “cancel culture” persino la Commissione europea ci ha provato. La nascita di Gesù, invece, non solo è storia ma anche fede rivelata. E il cinema talvolta ce lo ha ricordato. Una nota di Eusebio Ciccotti

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